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Roma Disfatta – Vezio De Lucia e Francesco Erbani

Ripcopertina roma disfattaroponiamo, in occasione dell’iniziativa La notte delle Delibere 6 anni dopo, che ha visto la partecipazione dell’urbanista Vezio De Lucia, il prologo del  libro ROMA DISFATTA  Perchè la Capitale non è più una città e cosa fare per ridarle una dimensione pubblica di Vezio De Lucia e Francesco Erbani (Castelvecchi, maggio 2016)

 

PROLOGO

Roma è una città a pezzi. Se non nella realtà dei fatti, certo nella rappresentazione di sé. E la rappresentazione di sé non è solo una vernice superficiale e non lo è mai stata nella sua storia millenaria. L’immagine che di Roma viene proiettata sulla scena nazionale e su quella internazionale è stata ed è parte essenziale della realtà stessa di Roma. E in questi nostri anni non è affatto lusinghiera. D’altro canto, anche un osservatore svagato non può non riconoscere quante risorse di bellezza, di capacità e di occasioni Roma custodisce.

A seconda dei punti d’osservazione, dei periodi e persino delle giornate e degli umori personali, la lancetta sembra oscillare. Da una parte: una città senza governo, senza un ceto politico degno di essa, che assiste intontita e disincantata al via vai di mazzette che regolano le sue funzioni vitali, insensibile a un’illegalità di cui si è anche artefici, una città che esclude e crea nuovi baratri. Dall’altra: tanti luoghi accoglienti e capaci di rigenerare lo spirito e l’intelligenza, efficienti centri culturali e di formazione, ricchissimi repertori di saperi, intraprese economiche innovative che avrebbero bisogno di spazi per esprimersi, attività creative e artistiche – dalla musica classica alla street art –, iniziative politiche dal basso che, sebbene poco coordinate, mostrano il volto di una città reattiva.

Ma le oscillazioni si misurano soprattutto sulla dimensione territoriale. Che è quella sulla quale maggiormente si concentra questo libro. Un quartiere di speculazione anni Sessanta, un insediamento abusivo, un recentissimo agglomerato edilizio attorno al Grande raccordo anulare si confrontano e confliggono con la città storica, quella che giunge fino alla soglia degli anni Cinquanta del Novecento, con Prati, la Garbatella e l’Eur. Ma non si è tanto in presenza di un contrasto fra il presente e il passato. Che avrebbe poco senso. Ancora negli anni Settanta e Ottanta a Roma si progettano quartieri di edilizia pubblica che rispondono a un’idea di città in cui le distanze fra centro e periferie si riducano, e nel frattempo persino il riassetto dell’area archeologica centrale è in funzione di un nuovo solidarismo urbano. Il contrasto è piuttosto fra due logiche che presiedono al destino di una città. Una logica privatistica e una logica fondata sull’interesse pubblico.

* * *

Nel dicembre 2014 Mafia capitale non era sembrata una terribile novità. Di mafia a Roma si ragiona da anni e su di essa da anni si indaga. Non si contano i sequestri di attività commerciali, di ristoranti e di bar dietro i quali si cela un capitale mafioso, in particolare di ‘ndrangheta e camorra. Si sa che lo spaccio di droga risale a centrali criminali, si spara e si uccide. Inoltre a Roma hanno sempre operato gruppi, come la banda della Magliana, attivi su vari fronti, da quello delinquenziale a quello infiltrato nella pubblica amministrazione, fino a configurarsi quale braccio armato per terribili e oscure finalità politiche. Ma era una compagine, quella della Magliana, comunque circoscritta, e ormai liquidata.

La seconda retata del giugno 2015 ha viceversa confermato che esiste una Mafia specifica della capitale. La novità è che stavolta, come hanno spiegato i magistrati, Roma ha patito un inquinamento di strutture politiche e amministrative praticato con metodi mafiosi, ma senza accertati legami con Cosa Nostra o con i casalesi e le ‘ndrine. La convergenza di interessi fra la politica, l’amministrazione, certe cooperative e certe imprese, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, è stata agevolata dal deprimente stato di salute dei partiti, senza sostanziali differenze fra centrodestra e centrosinistra, e dai sistemi di selezione del personale politico, che consentono carriere tanto più ammirate quanto più aliene da visioni politiche d’insieme.

E allora mesi di ansia, di attesa delle ondate successive. Dopo l’assistenza sociale, gli immigrati, la manutenzione del verde, il disagio abitativo in molti si aspettavano che le indagini investissero la metro C e la sanità. Pareva inoltre possibile che, dopo il comune, fosse la volta della regione, fino a quel momento solo sfiorata. La magistratura indaga, ha i suoi tempi e le sue procedure. E in effetti dal tipo di collusioni individuate sembra riduttivo immaginare che il malaffare tocchi solo alcuni settori dell’economia e della politica romana e non abbracci ambienti ben altrimenti altolocati.

Ciò che a noi interessa è che alla drammatica scoperta della mafia romana la città non ha reagito. O meglio, hanno reagito segmenti della società (comitati, associazioni, siti web eccetera) ma niente che abbia coinvolto la realtà romana nel suo insieme. Niente di paragonabile con le manifestazioni di Palermo degli anni Ottanta e Novanta, niente di simile alla distanza dalla camorra che anche Napoli ha più volte dimostrato. Roma non ha reagito. La protesta più inquietante è stata quella del Movimento 5 Stelle contro il sindaco Ignazio Marino in piazza del Campidoglio insieme a Casa Pound. Così, piano piano, ci si è avviati verso la normalizzazione, e tornano ad affacciarsi personaggi che si sperava usciti dalla scena. Qualcuno addirittura propenso a candidarsi alle primarie del Pd.

Se non è un’esagerazione la scoperta di una mafia romana doc, la città non ha reagito perché il disincanto ha superato la soglia di guardia. Nel corso della sua lunga storia, Roma è stata violentata altre volte e molto peggio, da Alarico ai lanzichenecchi, agli speculatori del dopoguerra. Ma ogni volta la città è stata capace di reagire. Per stare nei nostri tempi, i comunisti di Aldo Natoli, i laici di Mario Pannunzio, gli ambientalisti di Italia Nostra, i cattolici del dissenso contrastavano con tenacia e autorevolezza la politica asservita ai costruttori. Stavolta prevalgono la rassegnazione e l’incapacità di interpretare i dati di fatto. Forse è questa la prima ragione che ha determinato l’esito infausto dell’amministrazione Marino. Esito infausto accelerato dall’inedita crisi dei rapporti fra il Campidoglio e Palazzo Chigi sfociata poi nella sfiducia nei confronti del sindaco e quindi nel suo licenziamento. Una crisi inedita perché mai in passato fra governo e comune era stata esibita inimicizia. Ovviamente impensabile negli oltre trent’anni di supremazia democristiana al comune e al governo nazionale, dal dopoguerra al 1976. Ma nel 1976, il capogruppo Giulio Andreotti fece astenere la Dc nell’elezione del sindaco di sinistra Giulio Carlo Argan. E il suo successore, il comunista Luigi Petroselli, poté contare sul sostegno del governo a maggioranza Dc in quasi tutte le sue iniziative, e fu strettissima l’intesa con i ministri per i Beni culturali, in particolare per il Progetto Fori e l’archeologia.

Con Marino invece è stata guerra, e molti osservatori hanno sottolineato l’irritualità e la brutalità ostentate per liquidare l’esperienza sua e della sua amministrazione. In questo modo il Pd ha scaricato sul capo del sindaco, oltre le responsabilità del sindaco stesso, anche la propria incapacità di offrire un’idea della capitale, una strategia di governo per fronteggiare il malessere dei romani. Agendo in modo così sbrigativo il Pd ha cercato anche di occultare le lacerazioni al proprio interno e i tanti, diffusi fenomeni di collusione affaristica e clientelare che ne hanno inaridito la fibra. D’altronde, un’idea della capitale, oltre i profili personali dei candidati, è mancata anche nella campagna elettorale per le primarie.

Il drammatico finale di consiliatura ha gettato una luce livida sui poteri che a Roma ostacolano ogni specie di cambiamento. Questi poteri possono manifestarsi in un’ottusa resistenza burocratica, che nasconde una trama di corruttele, oppure nell’attiva ostilità di chi perde posizioni di monopolio, dalla gestione dei rifiuti al controllo sulle operazioni immobiliari. Diventa perciò importante riflettere, anche a distanza di tempo e colmando evidenti e perseguite lacune nelle analisi e nelle interpretazioni, sui caratteri e sulla condotta politica del governo cittadino uscito dalle elezioni del giugno 2013. Ignazio Marino e la sua giunta si sono presentati esibendo forti tratti di discontinuità con il passato. Con quale passato, però, è apparso fin da subito solo parzialmente evidente. L’amministrazione Alemanno aveva arrecato alla città tali e tanti danni per cui la rottura con quel quinquennio era nelle cose. Inoltre, essendosi ripresentato alla testa del centrodestra, Alemanno rivendicava ipso facto la continuità con la propria sindacatura. Dalle urne l’amministrazione Alemanno è uscita battuta con nettezza e ha trascinato con sé nella sconfitta una strutturale incapacità di proporsi come classe dirigente. Il voto ha chiuso una stagione di ex picchiatori collocati ai piani alti dell’amministrazione e delle sue controllate, gonfiate di assunzioni clientelari, e di un personale politico subito a proprio agio nel conciliare il governo della città con i più opachi affari privati.

Con questo passato non ci voleva molto a marcare la discontinuità. E qui ci piace ricordare fra le benemerenze di Marino la liberazione di gran parte di piazza Navona e di altri luoghi storici dall’invasione barbarica di ristoratori e bancarellari. Ma una parte consistente del voto andato a Marino conteneva l’invito a rompere anche con il cosiddetto “modello Roma” avviato da Francesco Rutelli nel 1993 e proseguito fino al 2008 con Walter Veltroni. I conti con la lunga stagione del centrosinistra andavano fatti non fosse altro perché c’era da chiarire una circostanza non di poco valore: che cosa aveva provocato l’inattesa e clamorosa sconfitta alle elezioni amministrative del 2008, quando Francesco Rutelli fu battuto da Alemanno? Tutta colpa del candidato sindaco o a questa andava aggiunta la responsabilità dell’insieme della politica capitolina in una conduzione del Campidoglio quanto meno incapace di sondare i malumori che da tempo si avvertivano in città?

In che misura il Campidoglio, dopo il giugno del 2013, ha rotto con le pratiche collusive evidenziate dalla Procura della Repubblica e dall’Autorità anticorruzione? Poco o niente, stando agli accertamenti compiuti. L’amministrazione Marino, in sostanza, non è sembrata in grado di stringere legami intensi e duraturi con i settori della città che l’avevano votata sperando nella rottura di una continuità decennale. Ma è mancata o è fallita la ricerca di sponde politiche cui far riferimento, in assenza di un appoggio pieno e costante dei partiti di maggioranza e in primo luogo del Pd. Appoggio di cui certo non godevano né il sindaco né parte dei suoi assessori. Con iniziative e atti concreti il Campidoglio sarebbe dovuto andare incontro a una città infiacchita e immiserita, spossata da anni di trascurata inerzia, alle sue parti più deboli, più periferiche, maggiormente affette da una sensazione di solitudine e di isolamento. Il sindaco si sarebbe dovuto mostrare più coerentemente “marziano” di quanto non è stato. Avrebbe dovuto procedere in linea con le intenzioni manifestate nel programma e ondeggiare meno alla ricerca di compromessi con i diversi notabilati del suo partito.

* * *

Questo libro intende misurarsi non tanto con la cronaca che ha trascinato e continua a trascinare Roma all’attenzione nazionale e internazionale in modo assai poco lusinghiero. La cronaca mette il sale dell’attualità su fenomeni di durata più ampia. Ed è con essi che si cerca di fare i conti nelle pagine che seguono. Il tema della discontinuità è uno dei fili concettuali che si tenta di srotolare.

Un elemento emerge con assoluta evidenza se si scorre anche solo sommariamente la storia urbanistica di Roma in questi ultimi decenni. È uno degli argomenti centrali del libro. E qui varrà la pena solo di accennarlo. Roma ha proseguito la propria crescita a ritmo sempre più accelerato. La formula utilizzata da Antonio Cederna per spiegare ciò che accadeva sotto i propri occhi, “la crescita a macchia d’olio”, non basta più a descrivere l’espansione urbanistica esorbitante dell’ultimo mezzo secolo, quando la popolazione è grosso modo rimasta la stessa, mentre lo spazio urbanizzato è più che raddoppiato. Valgono ancora oggi i giudizi senza misericordia dei due massimi storici dell’urbanistica romana, Leonardo Benevolo e Italo Insolera. Anzi, con il passare del tempo, quel che a loro appariva sbagliato è diventato letale ai fini di un funzionamento appena decente dell’organismo urbano. L’abusivismo, per esempio, nato solidale, mutualistico e di necessità da una costola della resistenza, si è a mano a mano trasformato in un’inquietante attività immobiliare affidata a consorzi privati che hanno assunto i caratteri di un opaco contropotere sottratto alle regole e al controllo democratico.

Dal dopoguerra in poi Roma si è distesa sul suo vasto territorio (129 mila ettari) distribuendo i nuovi insediamenti in tutte le direzioni intorno alla città consolidata (ferma restando la pratica, ben raccontata da Insolera, di collocare alcuni quartieri Ina-Casa a una certa distanza dalle ultime propaggini urbane in maniera da valorizzare le aree intermedie a tutto vantaggio della rendita). Dalla fine del decennio Ottanta gli insediamenti sono stati viceversa disseminati in maniera sempre più sparpagliata e sempre più slegata dal resto della città. Uno sprawl solo apparentemente assimilabile a quello di altre realtà europee, divergendo da esse per tanti motivi e anche per l’assenza di un servizio ferroviario metropolitano che assicurasse i collegamenti dentro e con la città.

Le mappe che pubblichiamo nelle pagine seguenti dimostrano che questa procedura di crescita è andata avanti senza interruzioni, sia che in Campidoglio sedessero sindaci di centro, di centrosinistra o di centrodestra. Roma è stata abbandonata a se stessa. All’esterno dei 68 chilometri del Grande raccordo anulare, ma all’interno del comune di Roma, si è andata formando una città che ormai viene accreditata, secondo diverse stime, di oltre un milione di abitanti. Più ci si allontana dal centro più le nuove urbanizzazioni si diradano, si slabbrano fino a toccare indici di densità talmente bassi da non essere più pertinenti a una dimensione di città. Mai, come vedremo in seguito, persone andate a vivere in questi brandelli avranno garantito un “diritto alla città”. Mai si assicureranno loro forme minime di accessibilità a ciò che costituisce la qualità urbana: la mobilità, la solidarietà, la convivenza, lo spazio pubblico.

La forma o, meglio, la perdita di forma determina una delle condizioni di fatica esistenziale di Roma. Alcune delle sue patologie dipendono da essa e stupisce come molti osservatori si applichino a inveire contro i sintomi senza risalire alle cause. Il numero di veicoli a motore privati per abitante (ormai vicino ai mille ogni mille); il traffico ingestibile; il debito stratosferico dell’Atac, fra le cause del debito stratosferico di tutto il Comune; l’endemica sporcizia delle strade: queste e altre malattie hanno origine nel modo in cui si è sviluppata Roma.

Che cosa hanno fatto le amministrazioni che si sono succedute alla guida di Roma per governare, modificare, arrestare questo suo incedere, il rigonfiamento caotico delle sue parti più esterne, a fronte dello svuotamento di quelle centrali?

Qui torna la questione della discontinuità. L’urbanistica di Walter Veltroni e del suo predecessore Francesco Rutelli si è sviluppata sulla base di accordi fra l’amministrazione pubblica e i privati possessori di aree. Lo hanno definito il pianificar facendo. La perdita di forma che Roma andava assumendo ha ricevuto il sigillo dall’ultimo – e il peggiore – piano regolatore della sua storia, quello del 2008. Che per supportare giuridicamente tale impetuoso consumo di suolo si è inventato i “diritti edificatori”. E che nei fatti non pianificava granché, visto che prendeva atto di quel che si era già deciso e a quelle contrattazioni forniva un superiore avallo amministrativo.

Il successo di Gianni Alemanno è stato in gran parte strappato nei luoghi in cui Roma perdeva le caratteristiche più proprie di una città. Ciò è accaduto dove la bassissima densità valorizzava le pulsioni più individualiste, dove si liberavano i soffioni di una confusa insofferenza verso la politica tout court e verso un indistinto establishment, dove si covava un risentito disprezzo per le notti bianche e le feste del cinema, dove risuonava il vuoto seguito alle promesse di servizi e di metropolitane, dove solo i centri commerciali tenevano le luci accese dopo il tramonto, dove le nuove palazzine emanavano già l’odore consueto delle degradate periferie. Questi brandelli di non-città che messi insieme formavano una cospicua massa critica non sono stati ascoltati né capiti. Quella domenica dell’aprile 2008 chi diede il voto a Nicola Zingaretti, candidato presidente della Provincia, non lo diede a Francesco Rutelli, candidato sindaco di Roma. E così vinse Alemanno.

Alemanno si trovò a gestire un piano regolatore che aveva già quasi consumato le proprie previsioni edificatorie. Pressato da più parti, provò ad aggiungere dell’altro, ad andare oltre le dimensioni fissate in quel documento. E usò le norme contenute nello stesso piano e che consentivano di superarlo. Dove poté, forzò, gonfiò ciò che spettava ai privati sottraendolo al pubblico. Immaginò persino di demolire parte di un intero quartiere di edilizia popolare, Tor Bella Monaca, per costruire edifici i quali simulassero una grazia primi Novecento.

Nel programma elettorale di Ignazio Marino era contenuta l’intenzione di fermare questa disseminazione del cemento nella campagna romana e di invertire la rotta mettendo mano alle aree già costruite, ma malamente costruite. Un proposito di discontinuità con il passato di Alemanno, ma anche di Rutelli e Veltroni. Un proposito in qualche misura rispettato – fra i primi atti di giunta va segnalata l’abrogazione, per iniziativa dell’assessore Giovanni Caudo, della proposta di Alemanno di estendere l’edificabilità ad altri 2.300 ettari di agro romano. Poi però il proposito è stato negato dalla decisione di collocare arbitrariamente a Tor di Valle il nuovo stadio della Roma, il cui interesse pubblico è tutto da dimostrare: serve alla città un altro stadio? Serve che sia lì? E che ne sarà dello stadio Olimpico e dello stadio Flaminio, quest’ultimo affetto da gravissimo degrado? E che cosa succederà quando anche la Lazio chiederà di costruire un proprio impianto?

L’iniziale slancio verso la rottura di legami politici che raffiguravano la felice anomalia dell’amministrazione è sembrato esaurirsi. Mentre ha ripreso vigore una pratica di normalizzazione. Fino alla traumatica interruzione della consiliatura. L’amministrazione, e il sindaco in prima persona, sono stati insomma incapaci di ascoltare e di coinvolgere la città verso l’obiettivo della difesa e dell’ampliamento della dimensione pubblica che a Roma si era smarrita.

La difesa e l’ampliamento della dimensione pubblica: questo è il punto. Ma che significa il recupero della dimensione pubblica di una città che abbiamo visto andare in pezzi, sregolata, sporca, caotica, con amministrazioni pubbliche incapaci e sedotte dalla corruzione, preda di pulsioni affaristiche, in balìa di bande criminali talvolta sanguinarie e pervasive, talvolta grottesche e insolenti? Come si difende e si amplia la dimensione pubblica se la città è assuefatta ai dettami dell’accaparramento, dell’individualismo, dello spreco, dell’assenza di regole salvo quella di assicurare rendite immobiliari? Le risposte possono essere diverse. Non spetta a questo libro formulare indirizzi di politica e di amministrazione alternativi a quelli che hanno portato all’attuale disastro. Ma le storie e le cronache che abbiamo raccontato, le riflessioni che ci permettiamo di proporre ci convincono che il recupero della dimensione pubblica di Roma sta nel ritorno alla logica di una città fondata sulla storia e sulla bellezza, la qualità del vivere e dello stare insieme. Abbiamo ricordato l’Estate romana e raccontato storie come quella dell’Appia Antica e dei Fori Imperiali, che il libro ricostruisce puntualmente. La prima andata a buon fine negli anni Sessanta, la seconda (la più bella proposta di riforma urbanistica della capitale) dopo la morte di Petroselli rimasta colpevolmente disattesa. Walter Tocci ha dimostrato che Roma è compatibile con una moderna rete di trasporto pubblico su ferro. E la discontinuità assunta come filo concettuale anche con le esperienze di Francesco Rutelli e Walter Veltroni non impedisce di riconoscere che sono stati loro – da sindaci e ministri dei Beni culturali – a riportare Roma fra le città dell’arte. E non è lecito liquidare con battute sprezzanti quartieri di edilizia pubblica che si sono progettati a Roma negli anni Settanta e Ottanta – come Corviale, Laurentino 38 e anche Tor Bella Monaca – i cui esiti sono stati controversi, ma che rappresentano uno sforzo politico e culturale di cui si è persa la traccia.

Ripartiamo allora dallo spirito che dette vita a quelle esperienze. Non è un programma politico, ma la condizione per costruire un programma.

 Indice

Prologo

1. Di cosa parliamo quando parliamo di Roma

2. I Piani si fanno di giorno si disfano di notte

3. All’EUR, da Benito Mussolini alla Nuvola di Fuuksas

4. La molla infernale dell’abusivismo

5. Ma Tor Bella Monaca non è così male

6. Il tramonto del Progetto Fori

7. L’Appia antica e il futuro di Roma

8. Roma. Uso del suolo