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Claudio Meloni, Il grande bluff del rilancio delle politiche culturali

da emergenza culturaPubblichiamo, dal sito Emergenzacultura, la  Relazione di Claudio MeloniSoprintendenze uniche e Musei 2014-2019: prime riflessioni,  illustrata  al convegno dell’Associazione  Bianchi Bandinelli il 5 marzo 2019.  La Relazione parte da un bilancio delle riforme Franceschini, segnalando l’indebolimento dei settori che si occupano di tutela, che  sommato  ai fattori strutturali che hanno segnato il declino dei cicli lavorativi, quali il blocco pluriennale del turnover ed i tagli esiziali al  bilancio,  pone oggi a grave rischio l’intera gestione del patrimonio culturale. La Relazione passa poi ad analizzare i rischi di due provvedimenti che riguardano i beni culturali che stanno contrassegnando questo inizio di legislatura: la previsione di autonomia differenziata per alcune Regioni tra le più importanti nel Paese e la cessione delle competenze sul Turismo alle Politiche Agricole. Anche  sul fronte dello stato degli organici e delle  dinamiche del mercato del lavoro la Relazione riporta dati allarmanti: al 31 dicembre 2021 la carenza di personale prevista è di  8380  unità,  pari al 43,6% del personale. Nella conclusione della relazione  le “proposte per un vero cambiamento”. (AMBM)

Nel domandarsi quale sia la situazione attuale nel rapporto tra le politiche pubbliche e la gestione del patrimonio culturale viene quasi spontaneo verificare se il processo riorganizzativo messo in moto dalle ultime riforme ministeriali  abbia contribuito in modo significativo ad una ripresa generalizzata degli investimenti pubblici in questo settore, se effettivamente vi è stato questo effetto traino, tanto pubblicizzato all’epoca dell’emanazione delle riforme Franceschini, rispetto all’andamento della spesa pubblica per la cultura, che, tramite l’identificazione del sistema museale, avrebbe dovuto stimolare la valorizzazione del patrimonio diffuso.

Allo stesso modo ci pare opportuno valutare se e come la politica di incrementazione dell’offerta culturale, indirizzata su modelli mercificati, abbia prodotto significativi risultati dal punto di vista della maggiore fruizione dello stesso patrimonio diffuso, nei termini dell’aumento della sua funzione attrattiva al punto da modificare e riequilibrare le tendenze tradizionali dei flussi turistici collegati all’offerta culturale, ovvero il rapporto tra l’aumento dei flussi dei visitatori che registrano le statistiche ufficiali e le loro destinazioni.

Per rispondere a queste domande ci siamo affidati ai dati forniti dal rapporto BES 2018 nella sezione dedicata a Paesaggio e Patrimonio Culturale* e ai dati delle statistiche ufficiali ministeriali.

Il rapporto anzitutto rileva un andamento contraddittorio della spesa pubblica: mentre cresce la spesa statale, che nel 2017 ha stanziato 1,42 miliardi di euro (per la missione relativa alla Tutela ed alla Valorizzazione, al netto di Fus e dell’Art bonus), che incide per lo 0,24% sulla spesa pubblica primaria, (cifra in ogni caso ben distante dai 2,8 miliardi di inizio secolo, pari allo 0,32% della spesa primaria dell’epoca), diminuisce quella dei Comuni italiani che nel 2016 spendono 18,7 euro pro-capite, contro i 19,2 dell’anno precedente con una diminuzione che nel periodo 2010/2016 segna un arretramento della spesa del 14%, e, di conseguenza il peso della cultura nel bilancio delle amministrazioni comunali passa dal 3,4% del 2010 al 2,8% del 2016.

A corredo il dato generale che vede ancora malinconicamente il nostro Paese saldamente ancorato agli ultimi posti della classifica europea, che nel 2016 registra una incidenza dello 0,31% sul PIL, ben lontana dalla media europea (0,43%), e ben al di sotto di quanto spendono i maggiori paesi europei (solo la Francia spende più del doppio).

L’andamento della spesa dimostra inoltre un maggiore divario tra le aree geografiche del nostro paese: le amministrazioni del Centro Nord spendono in media quasi il triplo di quanto spendono le Regioni del Mezzogiorno (23,8 euro pro-capite contro gli 8,9, dato 2016) e in tutte le Regioni del Sud, ad eccezione della Sardegna la spesa pro-capite è inferiore ai 10 euro sino a toccare i 5 euro che si spendono in Campania. Infine la diminuzione della spesa registrata nel periodo 2010/2016 è stata del 21,9% nel Mezzogiorno, del 16,6% nel Centro e del 10,3% nel Nord.

Vale la pena di sottolineare come questa tendenza alla compressione della spesa pubblica sia del tutto in contrasto con la crescita dell’incidenza economica del settore, che  cresce nel dato occupazionale e nella incidenza sul PIL anche nei periodi di crisi (nel 2010/2014 il tasso occupazionale cresce del 1,18%  e il settore incide per il 17% sul valore aggiunto per un totale di circa 250 miliardi di euro).

Anche sui dati di fruizione avremmo da dire: a parte le nostre note perplessità sulla effettiva consistenza delle statistiche ufficiali va sempre rilevato che la suddivisione percentuale dei flussi di visitatori incide sempre con la polarizzazione verse le mete più tradizionali del turismo culturale, naturalmente riferite ai grandi attrattori, (Colosseo, Pompei e Uffizi) che assorbono da soli un terzo del totale dei flussi verso i siti statali (12 milioni e 500mila visitatori circa a fronte di 35 milioni di visitatori circa dei siti a pagamento, dati ufficiali riferiti al 2017) .

Quindi il quadro post riforma ci presenta un quadro sostanzialmente immutato rispetto agli scenari aperti dalla crisi economica, addirittura peggiorato in alcuni suoi indicatori più significativi e questo è il primo elemento di valutazione rispetto agli asset ampiamente propagandati:

la spesa pubblica non aumenta in modo significativo, anzi diminuisce ulteriormente nei suoi dati complessivi, il gap di investimenti pubblici rispetto ai paesi europei è rimasto immutato, il settore legato all’economia della cultura cresce e contribuisce in modo significativo alla ricchezza del paese, cresce il dato occupazionale specifico ma con esso cresce la deregolamentazione del mercato del lavoro, si accentua in modo drammatico il divario tra il Mezzogiorno ed il resto del paese, l’aumento dei flussi turistici, un dato peraltro del tutto legato a motivazioni relative all’andamento dei flussi internazionali, con l’irruzione nel mercato di Paesi come India e Cina, ed alla situazione generata dai luttuosi eventi legati al terrorismo internazionale di matrice islamica, non modifica il quadro complessivo della tendenza alla polarizzazione dell’offerta.

Questa doverosa premessa la riteniamo essenziale rispetto alla successiva valutazione, che riguarda lo stato delle organizzazioni pubbliche che si occupano di cultura e attività culturali, in particolare per valutare gli effetti della riforma Franceschini sulla macro organizzazione ministeriale e l’incidenza che la stessa ha potuto avere rispetto all’insieme dei servizi pubblici statali dedicati.

Il Ministero post riforma

Il quadro macro organizzativo che presenta il Ministero denota già nella proliferazione di alcune strutture la scelta fatta: la creazione ex novo dei Poli Museali su base regionale e la moltiplicazione dei Musei autonomi hanno di fatto spostato l’asse dei poteri interni a tutto favore del cosiddetto circuito della valorizzazione. Le conseguenze sono state il maggior addensamento di personale all’interno di queste strutture, che da sole assorbono il 45% dell’intera dotazione teorica, l’attribuzione ad esse di poteri di spesa autonomi, l’attribuzione del maggior numero di dirigenti, l’attribuzione delle maggiori risorse di bilancio. A questo fa da contraltare il ridimensionamento drastico del sistema della Soprintendenze, degli Archivi di Stato e delle Biblioteche, ridotte al rango di parenti poveri. Le Soprintendenze hanno ceduto gran parte del proprio personale e dei dirigenti,  incidendo sugli organici per il 20% rispetto alla dotazione teorica.  Analoga valutazione sulla situazione di Archivi e Biblioteche che  incidono sull’organico previsionale rispettivamente per il 15,7% e il 9,2%  I settori che si occupano direttamente della tutela risultano inoltre privi di autonomia di spesa e fortemente indeboliti rispetto alle esigenze organizzative che le attività complesse di competenza richiedono. Rispetto alla distribuzione dei dirigenti 46 sono quelli assegnati ai musei autonomi (di cui 10 dirigenti generali) ed ai poli museali, 41 alle Soprintendenze, 20 alle Soprintendenze Archivistiche,  8 agli Archivi, 9 alle Biblioteche.

Ancora oggi il processo non risulta concluso e nella gran parte dei casi la gestione delle strutture di riferimento orizzontale per le attività di tutela (Laboratori, Archivi, Depositi) è ancora in preda alla confusione, alla sovrapposizione ed al caos gestionale.

L’indebolimento dei settori che si occupano di tutela è pertanto un fatto oggettivamente verificabile ed il suo sommarsi ai fattori strutturali che hanno segnato il declino di questi cicli lavorativi, quali il blocco pluriennale del turnover ed i tagli esiziali al  bilancio,  pone oggi a grave rischio l’intera gestione del patrimonio culturale. Più volte ci siamo occupati di questo tema, in questa sede lo semplifichiamo con  tre esempi che rendono al meglio il senso di questa operazione:

L’equivoco della Soprintendenza Unica

L’idea organizzativa della Soprintendenza Unica potremmo definirla una brillantissima trovata mediatica finalizzata a nascondere all’opinione pubblica il vero senso di un esperimento organizzativo nato casualmente e conseguentemente ai problemi di riassetto determinato dalla creazione delle strutture concorrenti. Ovvero si è presentata questa riorganizzazione come una operazione di semplificazione organizzativo/burocratica, dove “uno è meglio di due”, corroborandola  sul piano del marketing con la teoria olistica. Un messaggio estremamente semplice e come tale destinato a far colpo sull’opinione pubblica già affascinata dalle prove muscolari sui visitatori dei Musei. In realtà l’operazione è servita semplicemente a santificare il ridimensionamento organizzativo del sistema delle Soprintendenze, attaccando il principio secondo il quale a capo delle più importanti competenze di tutela era necessario il Dirigente. Di conseguenza l’Unica è nata proprio a seguito della cessione delle Dirigenze al sistema Museale ed è consistita in una formula accattivante di una struttura con a capo un Dirigente ed i funzionari Capi Area a sopperire le professionalità dirigenziali sottratte dal sistema museale nei settori non di competenza del Capo dell’Ufficio. In tale contesto la Unica istituzionalizza il sostanziale ridimensionamento del sistema delle Soprintendenze. A questo naturalmente va aggiunto l’indebolimento normativo che hanno subito i procedimenti di tutela sul territorio, in conseguenza della riforma delle conferenze dei servizi.

La proliferazione dei Musei autonomi

Nel rappresentare preliminarmente che noi non intendiamo mettere in discussione la modalità organizzativa basata anche sui Musei dotati di autonomia gestionale, così come ci pare qualificante in quella riforma l’introduzione degli standard organizzativi dei Musei (di cui però non si trova traccia applicativa nella realtà effettuale), rileviamo che la seconda fase della riforma Franceschini, quella che ha direttamente attaccato il settore dell’Archeologia tramite l’istituzione della Unica, ha determinato la proliferazione di queste strutture che hanno polverizzato i più importanti territori archeologici del nostro Paese. E’ sotto gli occhi di tutti l’operazione che ha portato alla spoliazione della vecchia Soprintendenza Archeologica di Roma e di quella Napoletana, tramite la creazione di nuove strutture le cui condizioni di caos organizzativo e  logistico sono ben lungi dall’essere risolte, basti per tutti il caso del Parco dell’Appia Antica, inizialmente privo di personale, di sede e di risorse. A parte l’integrazione di personale, peraltro insufficiente rispetto alla pianta organica, a distanza di due anni dalla sua istituzione tutto il resto è rimasto immutato, al punto da ipotizzare una premorienza di questo Istituto per la palese incapacità di fornirlo di una normale dimensione organizzativa.

Il caso delle Biblioteche annesse alla valorizzazione

La scelta di includere in alcuni circuiti Museali alcune delle più importanti Biblioteche Statali dimostra da sola la pericolosità di una scelta che ha nei fatti estraniato alcune delle funzioni più importanti svolte dal Ministero in favore delle politiche della valorizzazione. Che si sono tradotte nel caso specifico nel saccheggio organizzativo di queste Biblioteche, che sono state depauperate del proprio patrimonio professionale ed il cui progetto culturale è stato affidato ai celebri Direttori manager, in generale del tutto digiuni rispetto all’organizzazione ed alle delicate funzioni di tutela che svolgono le Biblioteche statali. La conseguenza è che alcune prestigiose Biblioteche storiche (la Braidense, la Biasa, la Palatina, l’Estense, solo per citarne alcune) sono quasi del tutto sparite dalla toponomastica ministeriale, hanno assunto una funzione marginale rispetto agli obiettivi di commercializzazione dell’offerta culturale, essendo naturalmente strutture poco appetibili dal punto di vista della mercificazione dei servizi e hanno santificato il declino dei cicli connessi, in particolare quelli riferiti alle politiche di acquisizione, di tutela  e conservazione del patrimonio librario.

Gli scenari delle “nuove riforme”

Il cambio di direzione politica nel ministero sinora non ha prodotto riflessioni organizzative strutturate sull’organizzazione ministeriale. Il Ministro è sembrato passare da una fase di iniziale sostanziale acquiescenza ai modelli lasciati in eredità dal suo predecessore ad un successivo apparente ripensamento  con accenni critici, al punto di nominare una Commissione di “saggi”, con la finalità della revisione organizzativa.

Questo naturalmente non significa che siamo a bocce ferme: due provvedimenti di grande importanza che riguardano i beni culturali stanno contrassegnando questo inizio di legislatura:

la previsione di autonomia differenziata per alcune Regioni tra le più importanti nel Paese e la cessione delle competenze sul Turismo alle Politiche Agricole.

L’autonomia differenziata, che è parte del contratto di governo e che si sta esplicitando in questi giorni, comporta la creazione di nuove regioni a statuto speciale in un contesto nel quale è previsto il trasferimento delle competenze in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale alla competenza esclusiva di due delle tre regioni interessate (Lombardia e Veneto, mentre l’Emilia Romagna chiede solo la competenza esclusiva sulla valorizzazione).  Nel caso, assai probabile, che questo processo si dovesse mettere in moto, ci troveremmo di fronte ad una situazione inedita dal punto di vista della tenuta costituzionale dell’art.9 e in una condizione di opposizione pregiudiziale di fronte ad un progetto che mina dalle fondamenta l’idea stessa dell’unitarietà dello Stato. Abbiamo incontrato il Ministro il 20 febbraio scorso e abbiamo ricevuto importanti rassicurazioni sulla sua ferma volontà di mantenere le competenze in capo al Ministero. Di converso ancora oggi campeggiano sul sito del Governo – Dipartimento per gli Affari Regionali – quelle che vengono definite bozze di intesa tra il Presidente del Consiglio e i Presidenti delle Regioni interessate, con l’elencazione delle materie da trasferire alla competenza esclusiva di queste regioni. Ed è già riscontrabile l’effetto domino con la quasi totalità delle Regioni che avanzano richiesta di autonomia differenziata. Insomma siamo di fronte  ad un progetto nel migliore dei casi federalista avviato ad insaputa dei cittadini, che, nel caso fosse realizzato porrebbe serissimi problemi rispetto alla tenuta dello Stato unitario e degli equilibri istituzionali.

La cessione del Turismo alle politiche Agricole è anch’esso conseguenza diretta dell’accordo di maggioranza di governo ed è stato il primo atto attuato dal nuovo Governo addirittura ricorrendo ad un decreto legge nel quale si declamava l’urgenza e la necessità di tale scelta.  Pur essendo consapevoli del sollievo che la decisione di bypassare il binomio turismo cultura ha prodotto nei settori più attenti alla tutela del patrimonio non si può non ritenere questa scelta addirittura peggiore di quella fatta dal governo Letta che inserì il Turismo nel MIBAC. Intanto perché siamo di fronte allo scambio politico fatto su competenze pubbliche strategiche che invece vengono trattate dalla maggioranza di turno come fossero beni di famiglia, secondariamente perché il Turismo è competenza notoriamente trasversale che aveva necessità di una dimensione organizzativa autonoma e non certo di finire in un Ministero dove la sua presenza è addirittura meno giustificabile nelle motivazioni e nelle finalità che nel MIBAC, ricordando che comunque il turismo culturale incide per circa un 40% sul fatturato complessivo del settore.

Lo stato degli organici

Potremmo dire, rispetto alla fotografia attuale dello stato degli organici del ministero ed alle tendenze previsionali per i prossimi anni, di essere arrivati al redde rationem, al punto definibile di non ritorno. I dati sono desumibili dal sito stesso del Ministero e si riferiscono alle valutazioni fatte in vista della predisposizione dei piani per le assunzioni entro il 2021. I dati sono impressionanti e si riferiscono alle uscite massicce che prefigurano una vero e proprio passaggio generazionale. E che preliminarmente fanno giustizia anche rispetto alle misure propagandate sempre in epoca Franceschiniana: le assunzioni fatte sono risultate del tutto insufficienti rispetto ai fattori strutturali che hanno prodotto le carenze e l’invecchiamento dei lavoratori. Occorre sempre premettere che l’avvento della riforma ha coinciso con il taglio del costo del lavoro del 10% del personale delle aree e del 16% degli organici dirigenziali, segnando il termine ultimo di una curva discendente che ha visto calare la dotazione organica teorica dai 25123 del 1997 ai 19217 attuali.

I dati che segnano il declino strutturale degli organici sono noti e riguardano la media di età elevata degli addetti (ancora oggi superiore ai 50 anni), dovuta al blocco prolungato del turnover che ha determinato un vero e proprio gap generazionale, il permanere di una sacca strutturale di carenze alle quali adesso si assommeranno migliaia di uscite per cessazione, con effetti ancora più massicci determinati dalla cosiddetta quota 100. I dati sono reperibili sul sito istituzionale del MIBAC e sono estremamente esemplificativi della situazione:

organico di fatto presente alla data del 8/8/2018: 15957 con una carenza pari a 3260 unità;

carenza prevista al 1 gennaio 2021: 6153 unità

uscite previste al 31 dicembre 2020 (senza quota 100): 2969

uscite previste al 31 dicembre 2021 (con quota 100): 5207

carenza prevista al 31 dicembre 2021: 8380  unità pari al 43,6% del personale

organico di fatto accertato al 1 gennaio 2019: 15431 unità.

Di fronte a questo scenario abbiamo un piano assunzioni che, pur nelle sue dimensioni rispettabili (sono previste allo stato circa 3700 assunzioni entro il 2021, con un probabile aumento delle disponibilità dovuto all’irruzione della quota 100) non garantisce certo la completa copertura del turnover. In sostanza se le dimensioni si mantengono sulle attuali grandezze al termine di questo piano assunzioni ci ritroveremo all’incirca con le attuali carenze. L’ulteriore elemento che è fattore di grande preoccupazione è inoltre dovuto a tempistiche diverse rispetto alle uscite ed alle entrate: l’irruzione della quota 100 sta determinando effetti non previsti rispetto al numero di uscite per pensionamento e il dato previsionale contenuto nella tabella in alto rischia di essere pienamente confermato nelle scelte dei lavoratori. Mentre per le nuove assunzioni occorrerà attendere l’espletamento dei nuovi concorsi. Quindi si determinerà una fase di vuoto organizzativo le cui conseguenze potrebbero essere del tutto letali per il funzionamento dei servizi, ed in ogni caso le nuove assunzioni, che, è bene rilevarlo, sarebbero state un problema ineludibile per qualunque parte politica, non saranno sufficienti a coprire le carenze totali che si determineranno.

Il mercato del lavoro e le sue dinamiche

La crescita costante del settore, come sopra delineata, ha comportato certamente un aumento del dato complessivo sull’occupazione. Ai dati sopra riportati  ne vanno  aggiunti altri due: la presenza significativa dei giovani (età 25/34), che rappresentano il 24,2%  degli occupati rispetto al 20,8% degli altri settori e l’incidenza dei liberi professionisti, che in questo settore rappresentano il 17,6% degli occupati rispetto al 5,1% del resto dell’economia. A questi dati fanno da contraltare l’eccessiva frammentazione del mercato del lavoro, l’estrema flessibilità dei rapporti di lavoro che si traduce in una situazione di precarietà, di dumping salariale e di sfruttamento, la scarsissima incidenza dei giovani rispetto alla situazione degli organici ufficiali (dove sono presenti complessivamente 319 dipendenti under 34, ovvero l’1,7% rispetto all’organico teorico e il 2% rispetto all’organico effettivo), la presenza di un mercato del lavoro connesso ai cicli lavorativi interni di cui sono sconosciuti i parametri della sua grandezza in quanto non censito ufficialmente e dei suoi costi in quanto non esiste una classificazione ufficiale del bilancio che imputa queste spese al costo del lavoro. Possiamo certamente affermare che questi lavoratori, in gran parte professionisti, sono quelli che hanno pagato i costi più pesanti della crisi nei termini di diminuzione sostanziale dei livelli retributivi e di quelli occupazionali. Le statistiche ufficiali ministeriali (ricordiamo che il censimento delle prestazioni in regime di collaborazione professionale è un preciso obbligo normativo) riportano 180 collaborazioni censite alla data del 31 dicembre 2017. Solo l’autocensimento promosso da questa Associazione circa tre anni fa ne ha rilevato più di 600, anche questo numero certamente sottodimensionato rispetto all’entità del fenomeno, che incide in tutti i cicli lavorativi caratterizzati da alta specializzazione professionale e caratterizza in modo  pervasivo le attività che implicano l’applicazione delle nuove tecnologie ai cicli produttivi. Un mondo ampio e sconosciuto che arriva a toccare tutti i settori delle attività culturali, dai cicli di tutela, a quelli dell’offerta dei servizi culturali allo spettacolo. Tutto caratterizzato da un progressivo impoverimento economico, dalla desertificazione dei diritti, dall’imposizione vessatoria di forme di rapporto di lavoro più adatte a giustificarne formalmente la presenza nei cicli pubblici che a definire correttamente la tipologia di prestazioni richieste. L’altro elemento da mettere in evidenza è il fattore sostitutivo tramite il quale il ricorso a prestazioni esternalizzate ha di fatto sopperito alle carenze interne e dai nuovi fabbisogni professionali non rintracciabili negli organici interni. Questo è dovuto certamente alla carenza strutturale e storica nell’analisi dei fabbisogni emergenti, in particolare rispetto ai processi di innovazione organizzativa, ed alla creazione, da parte del sistema formativo, di nuove figure professionali che faticano a trovare collocazione nel mercato del lavoro generale di riferimento e sono del tutto assenti nella identificazione delle professionalità interne ai servizi pubblici. Infine l’assenza di valutazioni dell’incidenza sulla spesa del ricorso alle prestazioni esterne impedisce di dare una grandezza statistica sul loro costo e  di conseguenza di fare una parametrazione sul rapporto costi benefici. Per la classificazione ufficiale del bilancio statale comprare una fotocopiatrice o assumere un collaboratore esterno è la stessa cosa, per cui si determina il paradosso che alla compressione del costo del lavoro ufficiale ha fatto da contraltare un aumento progressivo delle spese di funzionamento. L’altro aspetto paradossale è che il costo del lavoro esternalizzato è comunque maggiore del costo interno, per effetto dei costi di fatturazione e intermediazione, pur in presenza di basse condizioni retributive.

Le prestazioni professionali in committenza non esauriscono certo la dimensione del mercato del lavoro connesso ai cicli pubblici, esistono altri segmenti complessi che riguardano il settore dell’offerta di servizi legata alla fruizione: il settore delle concessioni e la presenza della società in house, la Ales s.p.a..

Il settore collegato alla concessione dei servizi aggiuntivi occupa circa 3.000 lavoratori impegnati soprattutto nei circuiti legati ai grandi attrattori. La vicenda che riguarda questo settore è nota e riguarda una scelta politica risalente agli anni 80, che ha prodotto l’esternalizzazione di tutti i servizi connessi all’offerta nei cicli espositivi e museali. Anche in questo settore si registrano condizioni di lavoro in cui sono presenti forti elementi di precarizzazione e di dumping salariale. Dopo una lunghissima e scandalosa stagione di proroghe solo di recente  si sono avviati i bandi per i rinnovi delle convenzioni centralizzando le procedure in capo a Consip. Le modalità di svolgimento queste gare produrranno una forte compressione del costo del lavoro, per effetto dei ribassi, e quindi determineranno il sostanziale bypass delle clausole sociali che pure assai faticosamente il sindacato era riuscito ad ottenere. Solo per quel che riguarda  ad esempio l’appalto agli Uffizi risulta a rischio licenziamento il 30% dei lavoratori.

Più articolato sarebbe il discorso su Ales, la società in house di proprietà del Mibac che nasce da una società costruita ad hoc per assorbire una parte del bacino ex LSU e poi trasformata in una vera e propria società in house che, via via, ha acquisito una importanza sempre più strategica per le varie Direzioni politiche che si sono succedute poiché è la modalità più semplice per reclutare personale utile a sopperire le carenze che via via si determinano per effetto del blocco del turnover. Attualmente la società ha un organico di circa 1000 unità, è facile prevedere che tale organico sarà di molto integrato in questi anni e nelle more del termine delle procedure concorsuali previste. Il ministro attuale ha deciso di costituire una cabina di regia, che dovrà servire a definire i fabbisogni specifici di personale e la sua successiva allocazione sul territorio. L’obiettivo sembra essere quello di limitare l’autonomia di azione di cui il management interno ha goduto in questi anni. Al personale Ales si applica il CCNL del Commercio ed anche in questo caso il rapporto con il costo del lavoro interno presenta una differenza sostanziale dovuta ai costi di fatturazione e di funzionamento della struttura che appesantiscono gli oneri a carico dell’amministrazione, mentre il trattamento economico che percepiscono i lavoratori è inferiore agli omologhi interni ai ruoli del Ministero.

Infine il ricorso indiscriminato a forme di volontariato sostitutivo  del personale di ruolo è l’ultima trovata, il raschiamento del fondo del barile del precariato e dello sfruttamento, tramite un ricorso indiscriminato che purtroppo ha messo fortemente in discussione persino le finalità più nobili di questa attività. Il volontario utilizzato nella vigilanza o nei cicli bibliotecari, ecc., non è altro che un lavoratore privo totalmente di diritti e di tutele, a dimostrazione della capacità che  il datore di lavoro  pubblico  ha dimostrato nel peggiorare le condizioni dei lavoratori più dei cosiddetti padroni  delle ferriere.

Quali proposte per un vero cambiamento

Rispetto ad una valutazione fatta dal Ministro Bonisoli sullo stato dell’organizzazione ministeriale su una cosa ci sentiamo in particolare di concordare: ovvero che un processo di revisione organizzativa deve abbandonare l’idea di partire dalla macro organizzazione, tramite un processo che via via determina gli effetti sui cicli lavorativi sul territorio e sulle strutture. Un processo a discesa che ha finora caratterizzato tutti gli interventi di riorganizzazione operati dalle varie Direzioni politiche che sinora si sono distinte più per l’identificazione quasi ideologica con visioni preordinate che per la loro efficacia. Anzi: gli ultimi interventi hanno prodotto degli effetti dirompenti che sopra abbiamo tentato di descrivere, pur se in modo parziale ed incompleto. A nostro avviso occorre invece ripartire dalla individuazione dei livelli di efficacia dei servizi che il Ministero rende ai cittadini, verificando le distorsioni organizzative che si sono determinate, e solo dopo valutare l’impatto che questo processo può avere sulla ridefinizione delle strutture macro.

Se assumiamo come obiettivo qualificante il rafforzamento delle strutture di tutela sul territorio non si può che partire dalla ridefinizione delle funzioni e dell’organizzazione relativa al sistema della Soprintendenze, degli Archivi di Stato e della Biblioteche. In tale contesto a noi interessano poco gli astrattismi concettuali rispetto alla funzione più o meno olistica di questi Uffici: interessa invece un ragionamento incentrato sulla complessizzazione di queste strutture. Ovvero deve essere riaffermato il principio, da estendere a tutti i settori che si occupano della tutela, che ogni rilevante competenza tecnico scientifica deve avere un dirigente di riferimento. Ancora: queste strutture devono riacquisire autonomia di spesa ed avere un dirigente amministrativo a sovrintendere questa linea.

In sostanza questa idea si può tradurre nella grande Soprintendenza, dotata di autonomia gestionale sul modello dei Musei autonomi. Che può essere di settore o può essere unica. Stesso ragionamento per Archivi e Biblioteche: il recupero delle Dirigenze sottratte è un principio primario da cui ripartire: non è possibile che le Biblioteche storiche e i più importanti Archivi di Stato siano rimasti senza una Direzione adeguata  e rimane improponibile l’operazione di accorpamento di alcune Dirigenze in capo alle Soprintendenze Archivistiche Regionali, così come appare ineludibile il ripristino della piena autonomia, gestionale e scientifica, della Biblioteche storiche annesse ai circuiti di valorizzazione. E’ evidente che il ripristino delle Dirigenze nei cicli di tutela è una condizione ex ante, volta a ridare minime condizioni di autorevolezza istituzionale agli Uffici, ma che da sola non è una misura sufficiente a ridare funzionalità ai servizi. Occorre a nostro avviso muoversi tramite due direttrici che confluiscano in un progetto finalizzato alla revisione dei modelli organizzativi: un piano di revisione dei fabbisogni professionali, volto ad individuare modalità che riconoscano e internalizzino tutti i processi di innovazione organizzativa e tecnologica ed i fabbisogni emergenti ed un piano straordinario di assunzioni che si ponga la finalità della copertura totale del turnover e della piena occupazione rispetto alle previsioni dell’organico.

Il piano dei fabbisogni comporta la revisione della distribuzione delle previsioni teoriche nelle aree funzionali, previsto dalla legge Madia, attuabile sia tramite il superamento della prima area, che ormai svolge funzioni residuali, e la conseguente redistribuzione nell’area dei funzionari dei posti che si rendono disponibili, nonché una valutazione sull’ampliamento degli organici sia dei dirigenti che del personale delle aree. In tale contesto vanno riviste le dotazioni professionali anche in funzione delle professionalità che sforna il percorso formativo e che non trovano alcuna collocazione nel mercato del lavoro pubblico e dei processi di innovazione tecnologica che si valutano strategici ai fini dell’innovazione organizzativa.

Il piano straordinario di occupazione deve, nel porsi l’obiettivo di copertura totale dei livelli occupazionali, sanare e aggredire i fenomeni di esternalizzazione diffusa e indiscriminata, garantendo ai lavoratori esternalizzati le giuste opportunità di inserimento nei cicli lavorativi interni tramite la piena applicazione della legge Madia, che ne prevede la riserva dei posti. Quindi le assunzioni programmabili non possono rimanere nei numeri annunciati, ma devono essere incrementate tramite il ricorso ulteriore a forme straordinarie di finanziamento.

L’altro aspetto convergente è il processo di formazione riqualificazione del personale interno, nel quale la formazione continua sia la leva strategica funzionale alla crescita professionale dei lavoratori. Il Mibac, pur avendo una Direzione Generale dedicata, stanzia annualmente poche decine di migliaia di euro per la formazione dell’intero corpo del personale: noi stiamo chiedendo uno stanziamento, previsto dal nuovo CCNL, pari all’1% del costo del lavoro. Che equivarrebbe a 6 milioni di euro circa.

Condizione assolutamente necessaria e integrativa è la regolazione del mercato delle prestazioni professionali e di quelle date in concessione che passa attraverso due direzioni: il pieno riconoscimento delle professionalità dei beni culturali e meccanismi di regolazione dei rapporti di lavoro  afferenti, tramite la previsione di standard minimi per quel che riguarda i compensi ed i trattamenti normativi, e la previsione di clausole sociali stringenti e l’eliminazione dei massimi ribassi per quel che riguarda gli appalti.

Infine l’incidenza di queste scelte sulle strutture macro:

a nostro avviso la scelta di puntare sulla grande Soprintendenza esclude il permanere dei Poli Museali regionali, che sono il vero punto debole della riorganizzazione operata ed il conseguente reinserimento dei Musei negli ambiti territoriali di competenza della Soprintendenze, con la previsione di una linea dedicata con a capo un Dirigente. Accanto a queste andrebbe rideterminata la funzione dei Segretariati Regionali, che devono perdere le competenze tecniche e diventare centro di coordinamento amministrativo sul territorio, con funzioni di controllo e non di gestione della spesa, nonché il raccordo sui piani di valorizzazione territoriali. E andrebbe semplificata la struttura centrale dove abbiamo assistito ad una ingiustificata proliferazione delle direzioni generali.

Da ultimo il riordino del sistema dell’autonomia museale, tramite la riduzione dei Musei autonomi che passa soprattutto dalla ricomposizione dei territori archeologici frammentati dall’ultima fase della riorganizzazione di Franceschini.

Sulla base di queste proposte noi andremo al confronto con la Commissione istituita dal Ministro e poi con il Ministro stesso, e sulla base del recepimento delle stesse, se non nelle modalità indicate almeno nelle sua finalità, misureremo la volontà politica ad un reale cambiamento.

 

Relazione tenuta al convegno dell’Associazione  Bianchi Bandinelli (5 marzo 2019): Soprintendenze uniche e Musei 2014-2019: prime riflessioni

* vedi  sito ISTAT https://www.istat.it/it/archivio/224669 scarica BES2018-cap-9 paesaggio beni culturali

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