L’intervento di Alessandro Giangrande (Associazione PSP Progettazione Sostenibile Partecipata)

E’ difficile non essere d’accordo con le riflessioni di Anna in merito ai risultati del sondaggio sul gradimento del sindaco Marino e della sua amministrazione, recentemente pubblicati da alcuni giornali. Sono anche d’accordo con Paolo Gelsomini quando afferma che Marino ha forse mille difetti, ma che una cosa certamente l’ha capita: cioè che la città di Roma ha bisogno di una pianificazione strategica, finalizzata a sciogliere i nodi strutturali piuttosto che fare piccoli annunci che accontentano un po’ tutti ma che non risolvono nessun problema. Scrive Paolo che “ la città va governata come un sistema. Non c’è Parco archeologico che tenga senza un cambiamento coraggioso del sistema della mobilità a Roma, senza una disciplina del commercio, senza un regolamento del verde”.
Concordo anche con la necessità di attivare “un grande Laboratorio d’idee con la partecipazione di cittadini, forze economiche, sociali e culturali di questa città per cercare e condividere una strada da percorrere insieme e per iniziare a risolvere questi enormi problemi strutturali” (è ancora Paolo), ma non credo che a questo scopo sia sufficiente stimolare un grande convegno cittadino.
Forse sarebbe meglio cercare di mettere in atto un processo partecipativo diffuso per stimolare e orientare le decisioni dell’amministrazione non solo ai fini di redigere “un regolamento innovativo e avanzato per gli OSSERVATORI MUNICIPALI e CENTRALE che saranno istituiti con la definitiva approvazione della delibera RZ [Rifiuti Zero] in Campidoglio” (Massimo Piras) – un risultato certamente rilevante – ma anche e soprattutto per stabilire i principi generali ai quali dovranno ispirarsi tutti i (nuovi) regolamenti per la partecipazione a Roma, sia a livello di Comune sia di singoli Municipi.
A questo proposito ricordo che il gruppo di lavoro sulla partecipazione attivato da Carte in Regola, del quale faccio parte, ha da poco finito di elaborare una specifica proposta di linee guida che dovranno disciplinare i processi di partecipazione dei cittadini alle decisioni – anche strategiche – che riguardano il governo dei rispettivi ambiti territoriali. A questi processi potranno partecipare tutti i soggetti territoriali interessati: politici, funzionari e tecnici della PA, comitati di quartiere, associazioni culturali e di categoria, proprietari dei suoli, gruppi imprenditoriali tradizionali e a vocazione sociale, rappresentanti delle categorie ‘deboli’, singoli cittadini ecc. La proposta, prima di essere portata all’attenzione di tutto il mondo culturale e politico, dovrà essere discussa, migliorata e approfondita da coloro che sentono (o dovrebbero sentire) l’urgenza del problema: in primis, dai membri delle associazioni e dei comitati dell’area romana.
La ragione profonda che sta dietro a questa proposta è la necessità di porre rimedio all’evidente mancanza di eguaglianza sostanziale – sul piano economico, culturale, sociale ecc. – dei cittadini: una condizione che è a fondamento della nostra democrazia ma che è ancora lungi dall’essere realizzata, come vorrebbe la nostra Costituzione. L’ipotesi è che la diffusione territoriale di questi processi partecipativi possa contribuire a sanare gradualmente tali differenze, attraverso un processo mutuamente maieutico, dove tutti i saperi hanno diritto di cittadinanza; dove si genera una popolazione che si raggruppa intorno a un particolare problema di cui condivide una conoscenza comune che viene perfezionata e trasformata in azione.
Qualcuno potrà essere scettico in merito a questa iniziativa e si chiederà come sia possibile convincere a partecipare al processo partecipativo persone molto diverse per potere, interessi, sistema di valori, cultura e conoscenze tecniche; ma soprattutto come le loro diverse proposte, spesso conflittuali, possano trovare un punto d’incontro in una soluzione che sia condivisa quantomeno dalla maggioranza dei partecipanti, essere approvata in sede deliberante e poi attuata. Tanto più che la discussione politica si distingue da quella discorsiva non solo perché si conclude con la decisione e il voto, ma anche perché coloro che a essa prendono parte hanno pari diritto di parola, d’intervento e di voto, ma non sono necessariamente caratterizzati dalla ricerca di un accordo imparziale e razionale. A una discussione possono partecipare infatti soggetti che seguono una regola di comportamento morale, ma anche altri che non la seguono: quindi non sappiamo se saranno orientati a trattare i punti di vista degli altri come se fossero i propri o se invece si serviranno dell’argomentazione solo come strumento per conseguire vantaggi personali, di tipo materiale (elettorale, economico ecc.) o simbolico.
Sulla base di considerazioni come queste (che tutti noi spesso facciamo) potremmo finire con il ritenere sostanzialmente inutile l’argomentazione pubblica (e dunque anche i processi partecipativi) in quanto luogo dove gli interessi contrapposti, materiali e valoriali, si scontrano con le armi incruente della parola e della propaganda.
Ma a questa visione “realistica” del dibattito pubblico si possono muovere alcune obiezioni che ne mostrano l’insufficienza.
In primo luogo preferenze, bisogni e valori non sono un dato fisso e immodificabile, ma possono essere trasformati attraverso il processo discorsivo (o meglio, attraverso le informazioni e le argomentazioni che in esso sono veicolate). Questa tesi è stata studiata empiricamente, nel senso che si è osservato che chi partecipa a un appropriato contesto deliberativo può modificare le preferenze e gli orientamenti di coloro che in esso sono coinvolti. Si può dunque affermare che gli attori politici non siano del tutto impermeabili alle buone ragioni, ma piuttosto che debbano essere considerati come più o meno sensibili a esse.
Anche quando un soggetto intende solo perseguire visioni e interessi personali avulsi da ogni discorso etico, non dirà mai che la soluzione da lui proposta è quella più a lui stesso più favorevole, ma cercherà di argomentare in favore di essa mostrando come sia coerente con valori generalmente condivisi, oppure – ma in sostanza è la stessa cosa – mostrando come sia funzionale al perseguimento dell’interesse generale o del ben comune.
Ma perché scatta questa coazione, questa impossibilità concettuale di fare diversamente? Perché altrimenti finiremmo per giudicare negativamente questa persona. Insomma, chi interviene nel dibattito pubblico è costretto ad argomentare in un certo modo, anche se questa modalità può essere talvolta un mascheramento del contenuto reale. Ma il solo fatto di doversi adeguare a una forma “universalistica” crea, come dice Jon Elster, una “dissonanza” rispetto all’uso puramente ipocrita ed egoistico dell’argomento; e c’è da chiedersi se questa dissonanza non sia una forza che esercita una pressione sugli interlocutori, inducendoli a fare veramente ciò che dicono di fare, cioè a prendere sul serio l’argomentazione pubblica e a impegnarsi comunque nella ricerca di soluzioni che siano ugualmente buone per tutti.
E’ certamente un dovere di tutti noi adoperarsi affinché nella nostra dialettica sociale vi sia il massimo di deliberazione possibile e il minimo di attitudine puramente persuasoria.
Ma è soprattutto un dovere dell’amministrazione – in quanto soggetto deve (o dovrebbe) avere l’obbligo di favorire i processi partecipativi ed essere garante dell’attuazione dei loro risultati – di sforzarsi di agire in questa direzione.
Personalmente non credo che un’amministrazione che non voglia impegnarsi in questo pur difficile compito dovrebbe avere il nostro voto e il diritto di rappresentarci.
Alessandro Giangrande