di Anna Maria Bianchi (portavoce Carteinregola)
La partecipazione non è un pranzo di gala, come la rivoluzione*. E lo sanno bene tutti quelli che ne parlano, a proposito e a sproposito. Ne parlano a sproposito i programmi elettorali di tutti gli schieramenti, che la ribadiscono come un mantra, spesso nella forma “trasparenza e partecipazione”, per poi archiviarla prontamente subito dopo le elezioni.
Adesso siamo qui in una Casa della Città, appena inaugurata, e forse possiamo sperare che questa volta vada diversamente.
Ma se vogliamo che questa volta la Partecipazione sia “davvero” dobbiamo dirci le cose come stanno, senza retorica, senza ideologia, senza nascondere tutta la dose di conflitto che la partecipazione comporta. E questo vale per le istituzioni come per i cittadini.
Perché la partecipazione va a braccetto con il conflitto. Il conflitto in senso buono, creativo, che implica un confronto con gli altri, uno sforzo per “mettersi nei panni”.
Chi crede che la partecipazione sia facile e scontata, basta che pensi alle assemblee di condominio. Non c’è poi una grande differenza, all’inizio. Anche perché non siamo più abituati a sentirci parte di una comunità: anni di individualismo spinto possono creare effetti catastrofici quando le persone devono gestire i conflitti e anche un semplice confronto fuori dagli ambiti che sono loro familiari. In questi anni in cui abbiamo partecipato a molte riunioni nei territori, abbiamo toccato con mano che la maggior parte della gente ha disimparato a confrontarsi democraticamente con gli altri. Ad aspettare il proprio turno per parlare. A non prendersi tutto il tempo per fare il proprio discorso togliendo spazio a chi parla dopo. A capire il punto di vista dell’altro e a mettere in conto che forse potrebbe avere ragione.
Quando poi il confronto è tra cittadini e istituzioni, spesso la sensazione è che si tratti di un dialogo tra sordi. I cittadini ripetono le proprie domande indipendentemente dalle risposte dei propri interlocutori, anche quando sono chiare e ragionevoli. E spesso non vogliono sentire ragioni, le opzioni sono quasi sempre binarie: o le vertenze vengono risolte come prospettato dai cittadini al 100%, o si resta completamente “contro”.
Dialogo tra sordi, anche perché le istituzioni e la politica sanno assai poco confrontarsi con i cittadini. L’atteggiamento da “non disturbate il manovratore” ha caratterizzato in questi anni i governi di destra e di sinistra, anche quando “obtorto collo” hanno dovuto avviare i prescritti processi di partecipazione, che il più delle volte si sono rivelati una farsa. Perché se raggiungevano l’esito caldeggiato dai cittadini semplicemente non avevano seguito. Oppure – è il caso dell’amministrazione Alemanno – andavano avanti orwellianamente senza tenere nel minimo contro le obiezioni e le proposte dei territori, arrivando a “conclusioni dei processi partecipativi” in cui i partecipanti non erano d’accordo su nulla.
E di questo bisogna tenerne conto, oggi. Chi governa la città non può pensare di partire da zero e cominciare semplicemente un nuovo percorso.
Perché la partecipazione, oltre a gestire il conflitto, richiede prima di tutto che esista un rapporto di fiducia reciproca. E questa amministrazione ha ereditato una sfiducia profonda, che probabilmente riguarda tutta l’ Italia, ma che qui a Roma raggiunge vette inaudite. E credo che sinceramente ben pochi possano in buona fede nascondersi dietro il risultato elettorale delle elezioni europee per dire che va tutto bene.
Anche perché qui i cittadini hanno imparato a proprie spese che, per molte scelte, l’interesse pubblico è stata l’ultima delle preoccupazioni di chi era al governo della città e degli uffici che la gestivano.
Riconquistarsi la fiducia dei cittadini è una sfida difficile, ma non impossibile.
La prima condizione è la verità. Dire le cose come stanno, anche quando sono impopolari, anche quando offrono ulteriori argomenti a chi si oppone; non fare promesse che non si possano mantenere; e soprattutto non stancarsi di spiegare e di ascoltare.
Senza verità e trasparenza non può esserci partecipazione.
E la partecipazione è l’unica difesa che la città può mettere in campo: se avesse funzionato davvero in questi anni, non saremmo circondati dallo sfascio che oggi ci soffoca. Non avremmo un debito fuori controllo, i servizi funzionerebbero meglio e le scelte urbanistiche rispecchierebbero i veri bisogni della città. La partecipazione è l’unico antidoto contro l’abbandono dell’interesse pubblico generale in favore dei gruppi privati, delle lobbies, delle corporazioni, dei partiti, delle correnti…
Ma non solo per questo la partecipazione è importante : è anche l’unico modo per cominciare a ricostruire l’identità dei territori, che è anche quella delle persone. Partecipare attivamente alla vita e alle scelte che riguardano il proprio quartiere vuol dire contribuire a ricucire la propria comunità, costruire rapporti sociali, creare una solidarietà allargata. Senza queste cose, la qualità della vita è fortemente compromessa, qualunque sia il livello economico delle persone.
Proporre, decidere, battersi, ascoltare, cambiare idea, trovare nuove soluzioni, sono attività che non riguardano solo soluzioni concrete per il territorio, riguardano la nostra stessa dignità di cittadini e il modo più autentico di dare senso alla nostra vita.
* cito il mio amico Aldo Pirone della Comunità territoriale del VII municipio