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Quei favolosi anni Cinquanta: la “rigenerazione” vintage delle nuove NTA di Roma e il Decreto “Salva Milano”

Pubblichiamo da Roma Ricerca Roma un articolo di Alessandra Valentinelli e Barbara Pizzo | Feb 3, 2025

Ha un forte sapore vintage la recente tornata di proposte sulla “rigenerazione urbana”: tra Decreto “Salva Milano” e nuove Norme Tecniche del PRG di Roma, sembra di rivivere la stagione della grande espansione postbellica magistralmente ritratta dal film di Rosi Le mani sulla città. Benché non si punti più alla massiccia edificazione dei suburbi agricoli, a trasparire dietro allo slogan del “consumo di suolo zero” è infatti la stessa fascinazione che negli anni ’50 portò alla sistematica promozione dello sviluppo edilizio privato e alla sua crescita in ogni possibile direzione a detrimento di qualsiasi obiettivo pubblico di governo urbanistico delle trasformazioni: l’assenza o la reiterazione di deroghe ai piani, la massimizzazione delle densità edificatorie, il sottodimensionamento delle aree a verde e quell’indifferenza per le fattispecie d’intervento che di fatto delega la scelta localizzativa ai soggetti proprietari, frustrando ogni programmazione efficace di spazi e servizi collettivi.

Prima di divenire il paladino dell’urbanistica contrattata, Campos Venuti amava schernire il “rito ambrosiano” dell’urbanistica milanese, ricordando come nel 1955 il Grattacielo Pirelli, simbolo della modernità meneghina, fosse stato realizzato con la licenza in precario delle costruzioni temporanee. Certo le città erano da poco di nuovo impegnate nella redazione di Piani regolatori dopo le ricostruzioni dell’immediato dopoguerra; la disciplina urbanistica cominciava appena a misurarsi davvero con le dinamiche e le spinte propulsive della rendita fondiaria che emergevano insieme al boom economico e su cui soltanto nel decennio successivo avrebbe maturato strumenti (almeno potenzialmente) più adeguati al contrasto: una combinazione ottimale per la speculazione immobiliare dell’epoca, i cui guasti sono testimoniati al meglio da congestione, fabbisogni pregressi o vulnerabilità ai rischi climatici che oggi affliggono le periferie “consolidate” in quegli anni. Viene tuttavia spontaneo chiedersi se qualcosa sia davvero cambiato, perché invece di una coraggiosa sterzata nelle politiche per la città, si osserva piuttosto una costante tensione della attuale variante dell’orientamento pro-growth, la “rigenerazione”, ad attirare sviluppatori interessati ad appropriarsi dei valori “differenziali” di qualità urbana nel frattempo faticosamente riscattati nei quartieri, da e per la collettività.

È l’estate 2023 quando, intervistato sul suo Disegno di Legge per la “rigenerazione”, il senatore Gasparri di Forza Italia candidamente dichiara la necessità di “regole chiare e procedure semplici” a beneficio “di investitori internazionali che vorrebbero operare nel nostro paese”. Non è una novità, tanto che bisognerebbe suonare un campanello di allarme ogni volta che un discorso richiama la “certezza delle norme” e il “bisogno di semplificazione”. Già da qualche tempo, a Milano il Comune rilascia sulla base di SCIA, il più blando fra i titoli abilitativi, svariati permessi per abbattere vecchi edifici e laboratori dove innalzare fabbricati multipiano o persino grattacieli. Ma mentre il Sindaco Sala rivendica con orgoglio l’ingresso di ampi capitali stranieri nell’economia del mattone ambrosiana, fino a poco fa solo il giornalista Gianni Barbacetto e la locale rivista Arcipelago esprimevano sconcerto per lo zelo degli uffici nel consentire operazioni su cui di lì a breve avrebbe indagato la magistratura, bloccando quasi duecento cantieri. I meccanismi sono quelli classici, noti per i molti varchi che offrono ai settori immobiliari più aggressivi e di cui, con vaghe sfumature, si avvale la deregolamentazione urbanistica: cambi di destinazione d’uso, “premi di cubatura”, snellimenti procedurali, riduzione degli oneri in carico ai privati, deroghe in altezze e distanze al DM 1444/1968 che, dice Gasparri, “la rigenerazione richiede quando non sia possibile ricostruire altrove”.

Nasce così anche il c.d. Decreto “Salva Milano”, la proposta di “interpretazione autentica” in discussione alle Camere contro la cui definitiva approvazione, proprio in chiusura del 2024, si è schierato un numero crescente di urbanisti. L’appello partito da quattro docenti del Politecnico di Milano denuncia Il necrologio dell’urbanistica: in dieci anni Milano “ha iniziato a trasformarsi pezzo per pezzo, fuori da una visione d’insieme dello spazio pubblico e delle esigenze collettive della città”, “senza alcuna considerazione degli impatti ambientali, sociali e sulla qualità della vita”; in tal modo “si è imposto un modello di rigenerazione fai da te”, ma “disaccoppiare la rigenerazione urbana dalla pianificazione urbanistica (…) mette a rischio la possibilità di rigenerare le città secondo principi di inclusione sociale e riconversione ecologica”. Se passasse in Parlamento, la legge investirebbe la totalità dei centri italiani, con validità retroattiva al decreto del 2013 che, fatto salvo –ancora, ma per quanto?– il rispetto dei parametri di dotazioni urbane pubbliche, fissa un ulteriore tassello nella separazione fra edilizia e urbanistica: l’inclusione, nelle ristrutturazioni, delle demolizioni con ricostruzione.

L’appello, raccolto dalla SIU e rilanciato da singoli e associazioni lungo tutta la penisola, ha aperto un salutare dibattito, creando addirittura scompiglio nell’INU, lo storico Istituto nazionale degli urbanisti; se infatti il presidente Talia ha definito “scelte ed effetti pericolosi, e nemmeno risolutivi” gli impatti del Decreto, il presidente della sezione lombarda Marco Engel lo ha difeso in nome della “straordinaria vitalità del mercato immobiliare” di Milano e della sua pretesa impareggiabile quanto “assoluta eccezionalità”. Si può perdonare Engel che da buon milanese ignora come invece a Roma ci si stia già attrezzando in quella medesima direzione con la “variante” dell’intero corpus delle Norme Tecniche di Attuazione, adottata lo scorso 11 dicembre in Consiglio capitolino. Semmai stupisce il silenzio attorno alle contemporanee e non meno preoccupanti vicende della Capitale di diversi esponenti della cultura urbanistica romana nonostante l’indignazione per il caso milanese. C’entrano sicuramente la lunghezza e complessità del testo delle nuove NTA, i suoi tecnicismi, la pletorica bizantina: il contrario dello stile linguistico che dovrebbe accompagnare, completare e chiarire indirizzi e modalità di spazializzazione degli usi del suolo configurati nelle tavole di Piano, del quale sono la parte “verbale” inscindibile. Eppure anche tale variante è stata giustificata dalla necessità di “certezze” e di “semplificazione”.

Forse si è più propensi a partecipare a battaglie di livello nazionale per non compromettersi in quelle locali, dove ci si espone più direttamente – ma se non sono urbaniste e urbanisti ad occuparsene, chi mai dovrebbe farlo? Fra coloro che vi hanno messo mano (pochissimi), la maggior parte ha preferito concentrarsi su singoli articoli e commi, anche ottenendo gli auspicati riscontri su temi scottanti per Roma quali il diritto alla casa, la turistificazione, la cementificazione degli alvei. A sfuggire tuttavia è ciò che le nuove NTA svelano rispetto al modo di considerare l’urbanistica e la sua azione, ovvero la direzione che imprimeranno allo sviluppo della città. Abbiamo provato in diverse occasioni pubbliche a far presente che, prima e più che non ai singoli articoli, bisognerebbe far attenzione al significato complessivo dell’operazione, al quadro completo, partendo da aspetti “sistemici” che non possono essere sottovalutati: in particolare il carico urbanistico di residenti, pendolari o abitanti temporanei che andrà a pesare su zone a differente attrattività di investimento, con il connesso inasprimento di carenze pregresse localmente già drammatiche in servizi e verde, o il definitivo svilimento di previsioni di Piano già deboli, perché inattuate, insufficienti o non più adeguate, e che sempre più spesso si pensa di poter risolvere con la “monetizzazione”.

Giustificate principalmente come necessaria chiarificazione di un testo eccessivamente complesso, mero atto di adeguamento legislativo a normative nazionali, l’Amministrazione non ha infatti inteso né precedere le nuove Norme da una valutazione sullo stato di attuazione del Piano, che pure sconta il suo quindicesimo anno di vigenza, né provare a verificare, seppure tentativamente, le loro potenziali ricadute spaziali. Così che, mentre l’attività di revisione ha finito per modificare oltre metà dell’articolato delle precedenti NTA incidendo su pesi, relazioni ed equilibri del Piano regolatore, la Rete ecologica (peraltro elaborato “prescrittivo” esattamente come “Sistemi e Regole” e le stesse NTA) e la Carta della Qualità (citata ma mai presa seriamente in considerazione), cui spettava fissarne le “invarianti”, si sono limitate ad acquisire l’una i vincoli sovraordinati, l’altra qualche villino sparso tra I e II Municipio, perdendo assieme all’opportunità di includere nuove visioni strategiche e di tutela, anche molto della propria autorevolezza conformativa.

Gli esempi sono purtroppo molteplici. Fra questi, la già accennata “monetizzazione degli standard” ossia la possibilità concessa ai privati di convertire in somme equivalenti, la realizzazione di spazi verdi o parcheggi pubblici che il DM 1444/1968 riserva per legge a ciascun abitante da insediare e in relazione alle diverse funzioni: la monetizzazione è ora accordata ogni volta risultino irreperibili i terreni destinabili allo scopo; assenza che, viceversa, non condiziona i cambi di destinazione d’uso o gli aumenti di cubatura cui il costruttore può ambire, non subordina l’entità dei pagamenti alla distanza e accessibilità delle zone verdi che si rendono disponibili in alternativa, non implica finalità di consolidamento o ampliamento della Rete ecologica. In sintesi, se l’operatore privato prevede una certa trasformazione e questa richiede, per legge, di essere accompagnata da una determinata quantità di verde e servizi che però non è possibile realizzare perché non c’è spazio per farlo, invece di trovare una diversa, più sostenibile collocazione per l’intervento privato o rinunciare alla trasformazione, quanto si deve al pubblico in termini di standard viene trasformato in “moneta”: come se il denaro sostituisse un giardino, un parco o una scuola, mentre ciò che conta è lasciar liberi i capitali di essere investiti, e gli operatori di operare. L’urbanistica romana che critica il “rito ambrosiano” non fa niente di sostanzialmente diverso: non mette in discussione il modello di sviluppo ancora basato sulla crescita che la città sta perseguendo in contrasto con qualsiasi principio, pur continuamente evocato, ma altrettanto continuamente sottovalutato o addirittura ignorato, di “transizione” ecologica e di lotta al cambiamento climatico.

Ad agosto l’Unione Europea ha approvato il Regolamento 2024/1991 per il Ripristino della Natura che dovrà essere tradotto nella legislazione degli Stati Membri. L’articolo 8 dispone di conservare le coperture arboree e le aree verdi esistenti all’interno dei perimetri edificati, per poi estenderle dal 2030. Roma poteva eccellere in innovazione dettandone le fattibilità lungo il Tevere e il reticolo minore dei corsi d’acqua, nelle aree destinate agli ex SDO che supportano le residue connessioni ambientali tra Appia e Aniene, a Monte Mario perno dei corridoi ecologici occidentali: preservando quei felici connubi di beni storici, archeologici e naturalistici, tanto cari ad Adriano La Regina, come Torre Spaccata, l’ex Snia, Tor Fiscale, ramificando nel costruito più denso “isole d’ombra” per le scuole, le case di cura, i mercati rionali, moltiplicando le piazze “spugna” per assorbire le piogge e ricaricare la falda idrica; al Comune bastava integrare il Piano Clima, conferendogli funzioni di adattamento climatico ora inspiegabilmente lacunose, ma non ha saputo o, peggio, non ha voluto.