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Caso Cisterna di Latina: cosa avremmo potuto e dovuto fare per salvare Antonietta e le sue bambine?

IMG_9947 murale trullo donnaOgni volta che sentiamo al telegiornale l’ennesima notizia di una donna uccisa dal suo compagno o dal suo ex, ci chiediamo cosa si possa fare per arrestare una strage quotidiana che non ha classe sociale, nè geografia. Un’emergenza sicurezza che ha ben poco a che fare con gli slogan politici che hanno caratterizzato questa campagna elettorale. Questo approfondito lavoro pubblicato da Valigiablu.it racconta che gli strumenti ci sono, che devono essere migliorati e applicati. E cita il lavoro di una Commissione parlamentare che ha analizzato la situazione e individuato soluzioni e strumenti normativi. Da leggere per non sentirci impotenti di fronte al prossimo femminicidio e per promettere a noi stessi e alle vittime di questo massacro che ci batteremo in tutti i modi perchè le donne siano ascoltate e difese. (AMBM)

Caso Cisterna di Latina: cosa avremmo potuto e dovuto fare per salvare Antonietta e le sue bambine? di Claudia Torrisi @clatorrisi info@valigiablu.it

da https://www.valigiablu.it/cisterna-di-latina-femminicidio/

Il 28 febbraio, alle prime ore del mattino, Luigi Capasso, un appuntato dei carabinieri in servizio a Velletri, si era appostato sotto l’appartamento dove Antonietta Gargiulo – la moglie da cui si stava separando – viveva con le figlie, a Cisterna di Latina. L’ha aspettata in garage, e quando l’ha vista scendere per andare al lavoro, le ha sparato tre colpi con la pistola d’ordinanza. La donna non è morta – si trova ancora ricoverata all’ospedale San Camillo di Roma – ma è rimasta a terra: Capasso le ha rubato le chiavi ed è entrato nell’appartamento, dove dormivano le figlie di 13 e 7 anni. Ha sparato anche a loro, uccidendole.

Nel frattempo una vicina di casa aveva notato il corpo di Antonietta Gargiulo e aveva avvisato i carabinieri. Capasso si è barricato in casa per diverse ore, durante le quali ci sono state trattative con le forze dell’ordine coadiuvate da parenti e amici di famiglia nella speranza che le bambine fossero ancora vive. Poi si è suicidato.

Gli allarmi ignorati

La strage che si è consumata la mattina del 28 febbraio aveva avuto già diverse avvisaglie. Come ha raccontato una delle amiche di Antonietta, la donna «era terrorizzata da lui, e così le figlie. Se lo trovava davanti ovunque, la chiamava decine di volte, la picchiava per strada. Ma di denunciarlo non ne voleva sapere, aveva paura. Lui le diceva sempre: se non fai nulla avrai contro solo me, se mi denunci e cerchi di rovinarmi la carriera avrai contro tutte le forze dell’ordine e per te sarà l’inferno».

Erano in molti a essere al corrente della situazione: amici, colleghi, conoscenti, il parroco. Antonietta aveva cambiato la serratura di casa, si era rivolta più volte al comandante dei carabinieri della caserma di Velletri, dove Capasso prestava servizio, per raccontare la situazione e chiedere un intervento. Stando a quanto dichiarato da Maria Concetta Belli, la legale della donna, «il comandante, a quanto mi raccontava la mia cliente, lo aveva fatto. Le aveva promesso che avrebbe parlato con il marito, che lo avrebbe fatto ragionare e lei ogni volta usciva tranquillizzata da questi colloqui. Si fidava molto di questo carabiniere».

A settembre del 2017 Antonietta si era recata al commissariato della Polizia di Stato di Cisterna di Latina per presentare un esposto contro il marito. Pochi giorni prima, Capasso si era presentato allo stabilimento dove lavorava la donna, aggredendola davanti ai colleghi. La stessa cosa aveva fatto a casa, in presenza delle figlie. «Dopo l’episodio di settembre lei ha presentato un esposto in questura ma non una denuncia in quanto temeva che il suo gesto potesse far perdere il lavoro al marito. In quell’occasione però ha deciso di separarsi e lui era andato via da casa», ha spiegato Belli, che ha aggiunto come le bambine fossero «terrorizzate dal padre». Per questa ragione, la donna si era rivolta ai servizi sociali, chiedendo che le figlie non vedessero l’uomo da sole.

In seguito a un tentativo di mediazione familiare fallito (perché il marito era irremovibile nel non accettare la separazione), Antonietta aveva chiesto la separazione giudiziale.

Capasso era quindi andato a dormire in caserma. Ai suoi superiori aveva raccontato della separazione, di stare molto male e di essere in cura da uno psicologo. Gli ufficiali l’avevano dunque sottoposto a una visita psicoattiduniale, che si era conclusa con la prescrizione di una settimana di ferie. Dopo un nuovo controllo, Capasso era stato ritenuto idoneo al servizio.

La Questura di Latina ha spiegato al Fatto Quotidiano che mesi dopo l’esposto, a gennaio, l’uomo era stato «chiamato dal commissariato e redarguito. Lui aveva assicurato che era sua intenzione cercare di ricostruire il rapporto con la moglie. Una storia classica, ne vediamo tantissime ogni giorno». Le fonti, però, non hanno spiegato come mai il carabiniere non fosse stato chiamato subito.

Una settimana prima l’uomo aveva presentato a sua volta un esposto al commissariato di Cisterna di Latina contro la moglie: «Non vuole farmi entrare in casa e invece io voglio le chiavi per prendere i miei effetti personali e per consentire all’agenzia immobiliare di effettuare le visite al fine di vendere l’appartamento». Capasso lamentava anche che Antonietta non gli facesse vedere le figlie.

La donna era stata quindi convocata al commissariato, dove si era presentata accompagnata da un’operatrice di un centro antiviolenza a cui si era rivolta. Nei verbali riportati da Repubblica, Antonietta spiegava ancora una volta di temere il comportamento del marito: “Ho ancora paura di mio marito per il suo carattere violento e aggressivo”; “Voglio che mio marito stia lontano da me e dalle nostre figlie sino alla data della prima udienza [per la separazione, il 29 marzo] e che la smetta di inviarmi messaggi e telefonarmi in continuazione”.

Nel frattempo, infatti, ha ricordato l’avvocata Belli, il carabiniere «si faceva trovare sotto casa, la seguiva, uno stalker insomma. Cercava di incontrarla, ma lei, anche su mio consiglio, ha sempre rifiutato tutti gli incontri. Anche quando lui ha svuotato il conto corrente comune e disse che le avrebbe dato i soldi se acconsentiva ad incontrarlo. Mai avvenuto. È sempre stata attentissima, molto prudente». Racconta Fiorenza Sarzanini sul Corriere che appena un mese fa, il 29 gennaio, “Luigi Capasso si è appostato sotto casa di sua moglie alle 8 di mattina. Lei ha chiamato terrorizzata il 118 ma, quando è arrivata la Volante per identificarlo, lui ha spiegato che aspettava alcuni amici per prendere un caffè. E li ha mandati via”.

Gli errori e le mancanze

Antonietta Gargiulo aveva lanciato diversi allarmi sulla sua situazione: alle forze dell’ordine, alla cerchia di conoscenze, agli assistenti sociali. Nessuno però li ha raccolti.

Per capire cos’è andato storto in questa vicenda c’è una parola da tenere a mente: sottovalutazione.

«Che cosa si è inceppato nel caso di Cisterna di Latina? Non è un problema di leggi. Quelle teoricamente esistono, così come sono previsti una serie di strumenti», spiega a Valigia Blu Vittoria Tola della segreteria nazionale dell’UDIUnione donne in Italia. «Ad esempio – aggiunge – alle forze dell’ordine compete una valutazione del rischio, che devono attivare quando una donna si rivolge a loro con una denuncia, un esposto o anche quando ricevono una semplice segnalazione, sia dalla donna che da altri soggetti». Invece i carabinieri «hanno fatto finta di non sentire o di non capire. Addirittura quest’uomo è stato sottoposto a una valutazione e gli è stata rimessa in mano la pistola, permettendogli di portarla a casa. E questo nonostante Antonietta avesse fatto presente ai carabinieri che il marito aveva determinati comportamenti, che aveva atteggiamenti di violenza che terrorizzavano lei e le figlie, che non accettava la separazione, che l’aveva picchiata anche davanti a colleghe e colleghi».

La questione dell’arma è un altro elemento che rientra nel paradigma della sottovalutazione. Repubblica riporta alcuni dati secondo cui “tre su quattro degli uomini che uccidono una donna con un’arma da sparo sono appartenenti alle forze dell’ordine o guardie giurate”. Per questo, come spiegato al quotidiano dal Viminale, sono previsti dei controlli qualora venga ravvisata “qualsiasi situazione atipica che coinvolga un sottoposto”, che viene “immediatamente avviato a una visita di controllo davanti ad una commissione composta da medici e psicologi che, se necessario, dispone terapie, periodi di riposo o provvedimenti più seri”. Da questi controlli Capasso era venuto fuori idoneo alla detenzione dell’arma.

Un’altra falla è stata non mettere Antonietta nelle condizioni di difendersi. «Quando una donna vuole uscire da una relazione violenta – spiega Tola – ha bisogno delle informazioni necessarie per muoversi di conseguenza. Nel caso di Cisterna non le sono state date: nessuno le ha detto che con un uomo così l’unica possibilità a sua disposizione era la denuncia e la via di fuga. Nessuno le ha detto che ne andava della sua vita e delle sue figlie, i rischi che correva, a chi rivolgersi». Ad esempio ad Antonietta era stato consigliato di provare una mediazione familiare insieme al marito – poi fallita. Non solo in questo modo si è perso tempo prezioso, ma si tratta anche di una pratica vietata dalla Convenzione di Istanbul (1) nei casi di violenza.

I soggetti che hanno responsabilità sono diversi. Anche gli assistenti sociali contattati dalla donna sono rimasti inermi. Come scrive la giornalista Luisa Betti, anche loro avrebbero potuto fare una segnalazione, ma “forse non si sono chiesti abbastanza perché Alessia e Martina, le due bambine, fossero così terrorizzate dal padre, un segnale che se opportunamente approfondito poteva far scattare l’allerta”. Eppure secondo Maria Concetta Belli, la legale di Antonietta, il loro stato d’animo era evidente: «La bambina più piccola, quando le si chiedeva se voleva vedere il papà sembrava traumatizzata, non parlava, si limitava a scuotere la testa, facendo cenno di no», mentre la più grande i primi tempi aveva mantenuto i rapporti con il padre, ma poi si era allontanata.

Capasso andava fermato, ammonito, messo in congedo e avvertito, afferma Tola. Ma, soprattutto, «questa donna avrebbe dovuto essere messa in una condizione di protezione insieme alle sue figlie: facendola sparire da Cisterna di Latina, convincendo il datore di lavoro a spostarla. Questa donna si poteva aiutare, e si poteva fare in modo che non fosse raggiungibile da quest’uomo. Persone competenti lo fanno in casi gravi come questo, o addirittura con uomini della criminalità organizzata».

Teresa Manente, avvocata specializzata sulla violenza contro le donne e responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna, ritiene che nel caso specifico di Cisterna di Latina, le autorità avrebbero anche potuto procedere d’ufficio contro Capasso «perché l’esposto rendeva noto un reato perpetrato nei confronti dei minori. Nei casi di stalking infatti si può intervenire d’ufficio se riguarda minori o se collegato ad un altro reato procedibile d’ufficio, come erano in questo caso le minacce di morte ricevute dalla donna. Era necessario avviare l’azione, si poteva e si doveva fare». Antonietta, aggiunge, «aveva manifestato la volontà di chiedere aiuto, e l’ha fatto con l’esposto. C’è stata una gravissima sottovalutazione del pericolo».

Una storia simile a tante altre: il fallimento del sistema

Il caso di Cisterna di Latina non è isolato. Seppur non esista una definizione condivisa e una raccolta di dati ufficiale, secondo la relazione della Commissione parlamentare sul femminicidio approvata lo scorso febbraio (2), nell’ultimo quadriennio i femminicidi rappresentano oltre un quarto degli omicidi complessivamente commessi.

L’ultimo studio Eures pubblicato a novembre del 2017, ha contato nei primi dieci mesi dello scorso anno 114 donne uccise, e il 76,7% di questi delitti è stato consumato in famiglia. Quello che è più rilevante però è che secondo il rapporto il 44,6% di queste donne avevano denunciato gli uomini da cui avevano subito violenza o minacce – così come anche Antonietta aveva fatto.

Come ha scritto Alessandra Pigliaru sul Manifesto, questo dato “rimarca un insidioso malinteso atto al discredito della parola delle donne a cui una certa sottocultura mediatica chiede di ‘non stare zitte’ mentre il reale riscontro è che quelle stesse donne, oltre a non essere state credute, muoiono ammazzate”.

Secondo Tola «non si crede alle donne, anche quando queste dicono in modo dettagliato cosa succede. Non si crede alla pericolosità o si minimizza il pericolo. Scatta una sorta di complicità consapevole o inconsapevole da parte di più soggetti nei confronti dell’uomo violento. Eppure in Italia c’è un sistema di leggi e disposizioni molto preciso in attuazione della convenzione di Istanbul che nel primo punto dice che bisogna prevenire la violenza, formare tutti gli attori che per ragioni di servizio possono venire a contatto con una donna che chiede aiuto, aiutarla a mettersi in salvo con i suoi figli».

Nel marzo del 2017 l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per non aver protetto adeguatamente una donna e suo figlio dagli atti di violenza domestica del marito, violando gli articoli della Convenzione europea dei dritti dell’uomo sul diritto alla vita (3), sul divieto di trattamenti inumani e degradanti e su quello di non discriminazione.

Il caso risale al 2013, quando in provincia di Udine Andrei Talpis ha ucciso il figlio diciannovenne Ion e ha tentato di fare lo stesso anche con la moglie, Elisaveta. La donna già nel 2012 si era rivolta una prima volta alla polizia, raccontando che il marito aveva picchiato lei e una dei suoi figli. Non aveva denunciato, ma le forze dell’ordine avevano verbalizzato le ferite riportate e avevano trovato Andrei ubriaco per strada. Qualche settimana dopo Elisaveta era stata minacciata con un coltello, e aveva chiesto aiuto una seconda volta alla polizia: gli agenti però dopo aver multato l’uomo per porto illegale dell’arma, l’avevano invitata a tornare a casa.

La donna si era rivolta allora a un centro antiviolenza, dove era stata accolta per qualche mese. Poi, a causa della mancanza di fondi, era dovuta andare via. Nel frattempo Andrei continuava a chiamarla ossessivamente. A settembre del 2012 Elisaveta aveva sporto fomale denuncia per lesioni, maltrattamenti e minacce, chiedendo alle autorità di proteggere lei e i suoi figli. Sette mesi dopo era stata interrogata per la prima volta e aveva mitigato le dichiarazioni rilasciate in precedenza. Così, un anno dopo, il caso era stato archiviato.

Il 25 novembre del 2013 Elisaveta si era rivolta alle forze dell’ordine ancora una volta. Una pattuglia aveva identificato l’uomo che vagava ubriaco per strada, l’aveva multato e rimandato a casa. Due ore dopo Andrei era entrato nell’appartamento, aveva aggredito Elisaveta e ucciso con un coltello il figlio che era intervenuto per difenderla.

Secondo Francesca Puglisi, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, «emerge chiaramente un problema di sottovalutazione delle violenze denunciate. Chi si occupa di accogliere le denunce e di contrastare il fenomeno deve essere in grado di distinguere la violenza domestica da una qualsiasi lite coniugale. È fondamentale farlo perché diverse sono le azioni da mettere in campo in seguito, soprattutto se ci sono dei minori coinvolti». Oltre alla formazione, «occorre proseguire nell’istituzione di protocolli di coordinamento territoriale che permettano ai soggetti di agire insieme in caso di violenze. Purtroppo oggi soltanto 13 prefetture, un decimo del totale, hanno questi protocolli creando complicazioni che potrebbero essere evitate. Esistono buchi normativi da colmare come la durata delle misure cautelari che spesso è insufficiente a garantire la protezione della donna che ha denunciato una violenza. Ed è necessario andare avanti nella specializzazione dei magistrati inquirenti con la creazione di veri e propri pool antiviolenza».

Le mancanze vengono riconosciute anche dagli stessi operatori del diritto. Maria Monteleone, procuratore aggiunto alla guida del gruppo di pm che a Roma si occupa dei reati contro le vittime vulnerabili, ritiene che tutti coloro che si occupano di violenza sulle donne debbano essere in grado di riconoscere il pericolo. «Il problema – spiega – non è la terminologia, e quindi l’uso dell’esposto o di una denuncia formale né se la donna racconta di aver già subito violenze o semplici minacce». Il punto è attivare una protezione quando esistono alcuni presupposti: una denuncia di maltrattamenti subiti a vario livello, un processo di separazione di coppia, il possesso di armi da parte del partner che non si rassegna alla fine del rapporto.

Fabio Roia, magistrato del tribunale di Milano attivo sul tema, ammette che operatori giudiziari, polizia, avvocati e perfino magistrati, non sempre «applicano con la necessaria precisione ed efficacia i numerosi istituti processuali e sostanziali esistenti». In ogni caso, secondo il magistrato, la legge si può migliorare, ad esempio prevedendo «la possibilità per il giudice, per una corretta valutazione del rischio, di ricorrere a “saperi esterni” per elaborare profili criminologici dell’autore del reato, che oggi è vietata. Possiamo disporre solo perizie per stabilire se una persona è capace di intendere e volere o per accertare patologie psichiatriche. Quando non vengono fatte valutazioni del rischio corrette, poi avvengono i femminicidi».

In una lettera aperta ai ministri dell’Interno, della Difesa, della Sanità e della Giustizia firmata da un gruppo di scrittrici, giornaliste e ricercatrici, si chiede di trovare le responsabilità per quanto successo a Cisterna di Latina. L’appello propone “l’immediata adozione in Italia di un metodo di intervento multi-agenzia sulle situazioni ad alto rischio, sul modello di quello adottato nel Regno Unito” e la procedura di Domestic Homicide Review (5) “che presuppone l’istituzione di una commissione per ogni caso di violenza domestica, vale a dire coinvolgendo tutti gli attori implicati, partendo dalla domanda: ‘Avremmo potuto salvare la vittima?'”. La vicenda di Cisterna di Latina, secondo le firmatarie, andrebbe analizzata “come un caso esemplare per capire dove e come le istituzioni hanno fallito, perché è stato inutile che Antonietta Gargiulo denunciasse, si premunisse, rendesse noto a tutti e in particolare ai servizi e alle autorità che lei e le sue figlie erano in gravissimo pericolo”.

«Serve consapevolezza vera di cosa vuol dire violenza maschile fuori e dentro la famiglia per tutti gli attori. Non bisogna fallire sulle parole o sulle informazioni, avere la capacità di trasmettere quello che esiste come servizi, leggi, meccanismi da praticare dalla segnalazione del disagio in poi, vedere se c’è una rete locale o se guardare fuori dal territorio», conclude Tola. «È fondamentale che ogni punto dell’istituzione che entra in contatto con una donna che chiede aiuto sia in grado di trasmetterle le informazioni e la solidarietà necessarie, e fare tutto il possibile per proteggerla». Foto in anteprima via Il Caffè.it di Latina Segnala un errore

Ricorda di citare la fonte: https://www.valigiablu.it/cisterna-di-latina-femminicidio/
Licenza cc-by-nc-nd valigiablu.it

(1) Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica

(2) Legislatura 17ª – Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere – Resoconto sommario n. 39 del 06/02/2018

(3) scarica Convenzione europea dei dritti dell’uomo Convenzione europea diritti dell’uomo_ITA

(4) https://www.gov.uk/government/collections/domestic-homicide-review

APPROFONDIMENTI A CURA DI CARTEINREGOLA

Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica

Istanbul, 11 maggio 2011 Traduzione non ufficiale

PROPOSTA DI RELAZIONE FINALE APPROVATA DALLA COMMISSIONE IN DATA 6 FEBBRAIO 2018

Indice

1. LAVORI DELLA COMMISSIONE

1.1. La legge istitutiva

1.2. La costituzione della Commissione e il programma dei lavori

1.3. I dati sull’attività della Commissione e le audizioni svolte

1.4. I contatti a livello europeo e internazionale e il Seminario del 23 novembre 2017

1.5. La valutazione di impatto: il questionario sulla violenza di genere inviato agli uffici giudiziari

1.6. L’acquisizione dei documenti

Ringraziamenti

2. Le dimensioni del fenomeno della violenza di genere e del femminicidio in Italia. Analisi dei dati

2.1. Misurare la violenza di genere

2.2. Focus: la tratta e la prostituzione, le donne con disabilità, le donne scomparse

2.3. Il costo economico della violenza

3. Il Quadro normativo vigente

3.1. La convenzione di Istanbul

3.2. L’attuazione della Convenzione e l’esercizio della due diligence da parte del Grevio

3.3. Le norme vigenti in Italia in tema di violenza contro le donne

3.4. Il nuovo statuto per la vittima di reato

4. Il questionario per la valutazione d’impatto della normativa (l. 77/2013 di ratifica della convenzione di istanbul, D.L. 11/2009 INTRODUZIONE DEL REATO DI STALKING E D.L. 93/2013 ULTERIORI MISURE CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE)

4.1. Introduzione alla rilevazione tramite questionario sui procedimenti penali per violenza di genere

4.2. Risultati del questionario realizzato dalla Commissione di inchiesta e inviato a tribunali, procure e corti d’appello

4.2.1. Struttura del questionario

4.2.2. Quesiti di competenza di tutti gli uffici

4.2.3. Quesiti di competenza delle procure

4.2.3.1. Analisi dei dati dal 2011 al 2016 forniti dalle procure

4.2.3.2. Le procure delle città metropolitane: Roma e Milano

4.2.4. Quesiti di competenza degli uffici giudicanti

4.2.4.1. Tribunali ordinari

4.2.4.2. Corti di appello

4.2.5. Focus sul distretto di Bologna

Allegati al capitolo 4

5. Studio delle sentenze dei “casi di femminicidio”

5.1. Analisi delle sentenze di femminicidio condotta dal Ministero della Giustizia

5.2. Un’ipotesi di lavoro mutuata dall’Inghilterra. La domestic homicidereview

5.3. “Mai più”: le sentenze Talpis e Manduca, le richieste di accesso agli atti della Commissione

6. Il piano nazionale straordinario contro la violenza sulle donne

7. Interventi di rete a tutela delle vittime

7.1. Gli strumenti a disposizione di tutte le forze di polizia: una panoramica

7.2. Iniziative specifiche della Polizia di Stato

7.3. Iniziative dell’Arma dei Carabinieri

7.4. I pronto soccorso

7.5. La valutazione del rischio. Come individuare le vittime ad alto rischio

7.6. Iniziative presso i Comuni e presso le Regioni

7.7. Il supporto economico a favore delle vittime di violenza: il congedo indennizzato, il fondo delle vittime dei reati violenti e il gratuito patrocinio

8. La protezione della vittima e il trattamento dell’autore di reato

8.1. I Centri antiviolenza

8.2. Il trattamento dell’autore di reato

Allegati al capitolo 8

9. La prevenzione della violenza: promozione di un cambiamento culturale

9.1. La formazione delle figure professionali come chiave strategica per il riconoscimento e l’intervento sulla violenza

9.2. La formazione scolastica contro la violenza di genere

9.3. Il contrasto alla violenza di genere e l’Università.

9.4. La narrazione della violenza e il ruolo dei social network

Allegati al capitolo 9

10. Criticità e prospettive di riforma

10.1 La raccolta dei dati

10.2 Vuoti di tutela in area penale

10.3 I problematici rapporti tra il procedimento penale e le determinazioni in sede civilistica e minorile

10.4 La prevenzione della violenza: promozione di un cambiamento culturale

10.5 Gli autori di reato

10.6 La violenza sulle donne con disabilità

10.7 I Piani nazionali contro la violenza

10.8 Le prospettive per l’eventuale attività di inchiesta nella prossima legislatura

Bibliografia

 

(DA SENATO https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/750635/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione2-h2_h22#)

La Convenzione di Istanbul e la legge di autorizzazione alla ratifica
Partendo da un quadro normativo interno già ricco di strumenti di contrasto della violenza di genere, l’Italia ha nella scorsa legislatura firmato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ovvero la cosiddetta Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l’11 maggio del 2011.

Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. La Convenzione interviene specificamente anche nell’ambito della violenza domestica, che non colpisce solo le donne, ma anche altri soggetti, ad esempio bambini ed anziani, ai quali altrettanto si applicano le medesime norme di tutela.

Per entrare in vigore, la Convenzione necessita della ratifica di almeno 10 Stati, tra i quali 8 membri del Consiglio d’Europa. L’Italia ha sottoscritto la Convenzione il 27 settembre 2012 e il Parlamento ha autorizzato la ratifica con la legge n. 77/2013 (v. infra). Ad oggi la Convenzione è stata firmata da 32 Stati, ratificata da 8 Stati; non è dunque ancora entrata in vigore.

La Convenzione (art. 3) precisa che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani ed è una forma di discriminazione contro le donne.

 

I contenuti della Convenzione
La Convenzione si compone di un Preambolo, di 81 articoli raggruppati in dodici Capitoli, e di un Allegato.

Quadro giuridicoIl Preambolo ricorda innanzitutto i principali strumenti che, nell’ambito del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite, sono collegati al tema oggetto della Convenzione e sui quali quest’ultima si basa. Tra di essi riveste particolare importanza la CEDAW (Convenzione Onu del 1979 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne) e il suo Protocollo opzionale del 1999 che riconosce la competenza della Commissione sull’eliminazione delle discriminazioni contro le donne a ricevere e prendere in esame le denunce provenienti da individui o gruppi nell’ambito della propria giurisdizione.

Si ricorda che la CEDAW – universalmente riconosciuta come una sorta di Carta dei diritti delle donne – definisce “discriminazione contro le donne” “ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile, o in qualsiasi altro campo”.

Si segnala che, sempre nell’ambito delle Nazioni Unite, nel 2009 è stato lanciato il database sulla violenza contro le donne, allo scopo di fornire il quadro delle misure adottate dagli Stati membri dell’Onu per contrastare la violenza contro le donne sul piano normativo e politico, nonché informazioni sui servizi a disposizione delle vittime.

Il Preambolo della Convenzione riconosce inoltre che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi ed aspira a creare un’Europa libera da questa violenza.

Gli Obiettivi della Convenzione sono elencati nel dettaglio dall’articolo 1. Oltre a quanto già esplicitato nel titolo della Convenzione stessa, appare importante evidenziare l’obiettivo di creare un quadro globale e integrato che consenta la protezione delle donne, nonchè la cooperazione internazionale e il sostegno alle autorità e alle organizzazioni a questo scopo deputate.

Di rilievo inoltre la previsione che stabilisce l’applicabilità della Convenzione sia in tempo di pace sia nelle situazioni di conflitto armato, circostanza, quest’ultima, che da sempre costituisce momento nel quale le violenze sulle donne conoscono particolare esacerbazione e ferocia.

Contestualmente alla firma, l’Italia ha depositato presso il Consiglio d’Europa una nota verbale con la quale ha dichiarato che “applicherà la Convenzione nel rispetto dei principi e delle previsioni costituzionali”. Tale dichiarazione interpretativa – apposta anche a seguito di quanto chiesto al Governo con le mozioni approvate al Senato il 20 settembre 2012 – è motivata dal fatto che la definizione di “genere” contenuta nella Convenzione – l’art. 3, lettera c) recita: “con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini” – è ritenuta troppo ampia e incerta e presenta profili di criticità con l’impianto costituzionale italiano (si veda, al proposito, la relazione illustrativa al ddl di autorizzazione alla ratifica – A.S. 3654 – presentato dal Governo Monti l’8 gennaio 2013).

 

L’articolo 4 della Convenzione sancisce il principio secondo il quale ogni individuo ha il diritto di vivere libero dalla violenza nella sfera pubblica e in quella privata. A tal fine le Parti si obbligano a tutelare questo diritto in particolare per quanto riguarda le donne, le principali vittime della violenza basata sul genere (ossia di quella violenza che colpisce le donne in quanto tali, o che le colpisce in modo sproporzionato).

Poiché la discriminazione di genere costituisce terreno fertile per la tolleranza della violenza contro le donne, la Convenzione si preoccupa di chiedere alle Parti l’adozione di tutte le norme atte a garantire la concreta applicazione del principio di parità tra i sessi corredate, se del caso, dall’applicazione di sanzioni.

I primi a dover rispettare gli obblighi imposti dalla Convenzione sono proprio gli Stati i cui rappresentanti, intesi in senso ampio, dovranno garantire comportamenti privi di ogni violenza nei confronti delle donne (art. 5).

 

L’articolo 5 prevede anche un risarcimento delle vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali, che può assumere forme diverse (riparazione del danno, indennizzo, riabilitazione, ecc.). L’indennizzo da parte dello Stato è disciplinato dall’art. 30, par. 2, della Convenzione ed è accordato alle vittime se la riparazione non è garantita da altre fonti.

Ampio spazio viene dato dalla Convenzione alla prevenzione della violenza contro le donne e della violenza domestica. La prevenzione richiede un profondo cambiamento di atteggiamenti e il superamento di stereotipi culturali che favoriscono o giustificano l’esistenza di tali forme di violenza. A tale scopo, la Convenzione impegna le Parti non solo ad adottare le misure legislative per prevenire la violenza, ma anche alla promozione di campagne di sensibilizzazione, a favorire nuovi programmi educativi e a formare adeguate figure professionali.

Altro punto fondamentale della Convenzione è la protezione delle vittime. Particolare enfasi viene posta sulla necessità di creare meccanismi di collaborazione per un’azione coordinata tra tutti gli organismi, statali e non, che rivestono un ruolo nella funzione di protezione e sostegno alle donne vittime di violenza, o alle vittime di violenza domestica. Per proteggere le vittime è¨ necessario che sia dato rilievo alle strutture atte al loro accoglimento, attraverso un’attività informativa adeguata che deve tenere conto del fatto che le vittime, nell’immediatezza del fatto, non sono spesso nelle condizioni psico-fisiche di assumere decisioni pienamente informate.

I servizi di supporto possono essere generali (es. servizi sociali o sanitari offerti dalla pubblica amministrazione) oppure specializzati. Fra questi si prevede la creazione di case rifugio e quella di linee telefoniche di sostegno attive notte e giorno. Strutture ad hoc sono inoltre previste per l’accoglienza delle vittime di violenza sessuale.

La Convenzione stabilisce l’obbligo per le Parti di adottare normative che permettano alle vittime di ottenere giustizia, nel campo civile, e compensazioni, in primo luogo dall’offensore, ma anche dalle autorità statali se queste non hanno messo in atto tutte le misure preventive e di tutela volte ad impedire la violenza (sui risarcimenti da parte dello Stato si è già detto più sopra).

La Convenzione individua anche una serie di reati (violenza fisica e psicologica, sessuale, stupro, mutilazioni genitali, ecc.), perseguibili penalmente, quando le violenze siano commesse intenzionalmente e promuove un’armonizzazione delle legislazioni per colmare vuoti normativi a livello nazionale e facilitare la lotta alla violenza anche a livello internazionale. Tra i reati perseguibili penalmente è inserito lo stalking, definito il comportamento intenzionale e minaccioso nei confronti di un’altra persona, che la porta a temere per la propria incolumità . Quanto al matrimonio forzato, vengono distinti i casi nei quali una persona viene costretta a contrarre matrimonio da quelli nei quali una persona viene attirata con l’inganno in un paese estero allo scopo di costringerla a contrarre matrimonio; in quest’ultimo caso, è sanzionabile penalmente anche il solo adescamento, pur in assenza di celebrazione del matrimonio.

La Convenzione torna in più punti sull’inaccettabilità di elementi religiosi o culturali, tra i quali il cosiddetto “onore” a giustificazione delle violenze chiedendo tra l’altro alle Parti di introdurre le misure, legislative o di altro tipo, per garantire che nei procedimenti penali intentati per crimini rientranti nell’ambito della Convenzione, tali elementi non possano essere invocati come attenuante.

In materia di sanzioni, la Convenzione chiede alle Parti di adottare misure per garantire che i reati in essa contemplati siano oggetto di punizioni efficaci, proporzionate e dissuasive, commisurate alla loro gravità .

 

La Convenzione contiene poi un ampio capitolo di previsioni che riguardano le inchieste giudiziarie, i procedimenti penali e le procedure di legge, a rafforzamento delle disposizioni che delineano diritti e doveri nella Convenzione stessa.

Un Capitolo apposito è dedicato alle donne migranti, incluse quelle senza documenti, e alle donne richiedenti asilo, due categorie particolarmente soggette a violenze di genere. La Convenzione mira ad introdurre un’ottica di genere nei confronti della violenza di cui sono vittime le migranti, ad esempio accordando ad esse la possibilità di ottenere uno status di residente indipendente da quello del coniuge o del partner. Inoltre, viene stabilito l’obbligo di riconoscere la violenza di genere come una forma di persecuzione (ai sensi della Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati) e ribadito l’obbligo di rispettare il diritto del non-respingimento per le vittime di violenza contro le donne.

La Convenzione istituisce infine un Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (GREVIO) costituito da esperti indipendenti, incaricati di monitorare l’attuazione della Convenzione da parte degli Stati aderenti. Il monitoraggio avverrà attraverso questionari, visite, inchieste e rapporti sullo stato di conformità degli ordinamenti interni agli standard convenzionali, raccomandazioni generali, ecc.). I privilegi e le immunità ei membri del GREVIO sono oggetto dell’Allegato alla Convenzione.

Come detto, il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica della Convenzione di Istanbul, approvando la legge 27 giugno 2013, n. 77.

Per una consapevole scelta del legislatore, la legge n. 77 non detta norme di adeguamento del nostro ordinamento interno motivate dal pieno rispetto della Convenzione. Ciò in quanto è prevalsa l’esigenza di privilegiare la rapida ratifica della Convenzione, essenziale a consentirne l’entrata in vigore; rapida ratifica che sarebbe stata ostacolata da un contenuto normativo più complesso. Concluso però questo adempimento, Governo e Parlamento hanno tentato di riempire di contenuti questa ratifica con il decreto-legge n. 93 del 2013 e la sua conversione in legge.
Il decreto-legge 93/2013
Il Governo ha emanato il decreto-legge 93 del 2013 nello scorso mese di agosto. Il provvedimento, come indicato nella relazione illustrativa del disegno di legge di conversione, è diretto anche ad attuare la Convenzione di Istanbul, con riguardo ai principali profili considerati necessari. Dopo una veloce calendarizzazione, il Parlamento ha convertito il provvedimento d’urgenza – che presenta peraltro un contenuto non circoscritto alla sola violenza di genere – con la legge 15 ottobre 2013, n. 119.

Il Capo I del decreto-legge, composto dagli articoli da 1 a 5-bis, è dedicato al contrasto e alla prevenzione della violenza di genere. In particolare, il provvedimento approvato:

interviene sul codice penale, introducendo un’aggravante comune (art. 61, n. 11-quinquies) per i delitti contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonchè per i maltrattamenti in famiglia, da applicare se i fatti sono commessi in danno o in presenza di minori;

novella il reato di atti persecutori (art. 612-bis, c.d. stalking), prevedendo un’aggravante quando il fatto è commesso con mezzi informatici o telematici e modificando il regime della querela di parte. In particolare, rispetto alla formulazione originaria del decreto-legge, che qualifica la querela come irrevocabile, la Camera ha circoscritto le ipotesi di irrevocabilità ai casi più gravi, prevedendo comunque che l’eventuale remissione possa avvenire soltanto in sede processuale;

interviene sul codice di procedura penale, consentendo anche quando si indaga per stalking di disporre intercettazioni;

introduce la misura di prevenzione dell’ammonimento del questore anche per condotte di violenza domestica, sulla falsariga di quanto già previsto per il reato di stalking;

sempre per tutelare le vittime, inserisce alcune misure relative all’allontanamento – anche d’urgenza – dalla casa familiare e all’arresto obbligatorio in flagranza dell’autore delle violenze. In merito, la Camera ha introdotto la possibilità di operare anche un controllo a distanza (c.d. braccialetto elettronico) del presunto autore di atti di violenza domestica;

prevede specifici obblighi di comunicazione da parte dell’autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria alla persona offesa dai reati di stalking e maltrattamenti in ambito familiare nonchè modalità protette di assunzione della prova e della testimonianza di minori e di adulti particolarmente vulnerabili;

modifica le disposizioni di attuazione del codice di procedura, inserendo i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking tra quelli che hanno priorità assoluta nella formazione dei ruoli d’udienza;

estende alle vittime dei reati di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali femminili l’ammissione al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito;

stabilisce che la relazione annuale al Parlamento sull’attività delle forze di polizia e sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica debba contenere un’analisi criminologica della violenza di genere;

riconosce agli stranieri vittime di violenza domestica la possibilità di ottenere uno specifico permesso di soggiorno;

demanda al Ministro per le pari opportunità l’elaborazione di un Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere, per il quale è previsto un finanziamento di 10 milioni di euro per il 2013, prevedendo azioni a sostegno delle donne vittime di violenza.

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