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Corsera, Gabanelli: Produrre più cibo non batterà la fame nel mondo

sito corriere gabanelli su fame nel mondo 29 aprile 2018 Schermata 2018-05-01 alle 13.30.54(dal corriere della sera 29 aprile 2018)

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Per una vita sana e attiva l’organismo mediamente ha bisogno di 2.100 calorie al giorno. Per dare un’idea: 100 gr di latte corrisponde a 47 calorie, di pane 250, riso 300, maiale 171, manzo 115, cavolo 40, cipolla 40, banana 89, mela 52. Bene, oggi 815 milioni di persone mettono nello stomaco poco più di un pugno di riso la giorno. I dati del rapporto Fao, Ifad, Unicef, Wfp, Who mostrano un fenomeno in crescita: 38milioni di affamati in più rispetto al 2015. Numeri che vengono confusi e inghiottiti dentro una preoccupazione più generale: se oggi 815 milioni di persone non mangiano, come si potrà sfamare un pianeta che nel 2050 sfiorerà i 10 miliardi di abitanti? La risposta dell’industria e delle agenzie internazionali è una sola: bisogna produrre più cibo. Intanto vediamo dove oggi si soffre la fame e perché.

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Dove si muore di fame e perché
La crisi alimentare più grave al mondo si consuma in Yemen, e coinvolge 17 milioni di persone. Tre anni di conflitti hanno reso l’accesso al cibo sempre più difficile. Sette anni di guerra in Siria hanno fatto impennare il prezzo degli alimenti dell’800%, portando sei milioni e mezzi di siriani a soffrire la fame, insieme ai sette milioni che vivono nella regione del Lago Ciad, diventata rifugio di terrorismi e persecuzioni. Guerre, guerriglie sono la causa di malnutrizione nella Repubblica Centrafricana, nella Repubblica Democratica del Congo, in Nigeria, Niger, Sud Sudan, Libia, Sahel centrale, Afghanistan. Poi ci sono gli shock climatici che colpiscono anche l’Etiopia, la Somalia, il Senegal, la Mauritania, il Burkina Faso e il Pakistan. A causa delle continue inondazioni e alto tasso di povertà, milioni di persone hanno la pancia vuota in Bangladesh, Myanmar, Mongolia e in vaste aree rurali dell’India

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Il cibo del futuro: ogm, insetti e hamburger di laboratorio
La popolazione mondiale oggi è di 7,5 miliardi, salirà a 8,6 nel 2030, a 9,8 nel 2050. Questo mostra un rallentamento nella crescita demografica, con un’unica eccezione: l’ Africa, che arriverà da sola a costituire il 50% dei 2,3 miliardi attesi fra 32 anni. In particolare si stima che la Nigeria diventerà il paese più popoloso al mondo (oggi è il settimo). Sulla base di questi indicatori la Fao ha valutato che sarà necessario aumentare la produzione del 50%.

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Da tempo i colossi della chimica fanno leva sul tema «fame nel mondo» per espandere le coltivazioni ogm, più recentemente la ricerca scientifica investe in quello che viene definito «il cibo del futuro». Si tratta di nuovi alimenti capaci di soddisfare la domanda scoraggiando gli allevamenti intensivi. L’ultimo studio che ha come obiettivo «alleviare la fame nel mondo» arriva dalla Finlandia, dove un gruppo di ricercatori ha creato delle proteine in laboratorio partendo dall’energia rinnovabile. Il cofondatore di Google, Sergey Brin, ha finanziato la produzione dell’hamburger in laboratorio. Una carne un po’ costosa, ma a basso impatto ambientale. Con una tecnica simile negli Stati Uniti c’è chi sta riuscendo a moltiplicare l’albume facendo a meno delle galline. La Fondazione «Bill&Melinda Gates», sta investendo negli incroci di mucche e polli per arrivare a «migliorare la produttività delle razze di bestiame disponibili per gli allevatori in Africa ». Stanno nascendo gli allevamenti su larga scala di insetti: sono nutrienti, molto proteici, si riproducono velocemente e si adattano a qualsiasi habitat.

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Le bocche da sfamare non sono tutte uguali
Idee, progetti e prodotti che porteranno ritorni economici ai paesi più ricchi e alle multinazionali, senza spostare di una virgola l’origine del problema. Le più gravi «food crisis» nel mondo non sono causate dalla mancanza di cibo, ma dai conflitti armati che distruggono le infrastrutture, rendono impossibili le coltivazioni, impediscono le forniture, causano la chiusura di attività, interrompono l’occupazione e l’assistenza sanitaria, provocano recessioni economiche, e di conseguenza rendono proibitivo l’accesso ai mercati per l’acquisto del cibo. A questo si aggiungono le calamità naturali: cicloni e siccità hanno obbligato lo scorso anno 19 milioni di persone a spostarsi. Cyril Lekiefs, senior food security di Action contre le Faim, l’organizzazione internazionale che si occupa da decenni del tema non ha dubbi: «Queste soluzioni sono destinate ai consumatori che vivono nel nord del mondo, l’hamburger di laboratorio non arriverà mai alle persone che oggi campano con un dollaro al giorno». L’unico modo per sfamare queste popolazioni oggi è quello di portargli da mangiare. Unicef, il principale fornitore di alimenti terapeutici pronti all’uso, sta investendo in tecnologia per rafforzare le infrastrutture, l’accesso ai servizi e alle informazioni. La Commissione europea invece ci mette i soldi, ed è il più grande donatore al mondo: 750 milioni di euro nel 2016, e incoraggia la distribuzione dei voucher direttamente nei villaggi.

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La fame è un problema politico
Considerando che nei prossimi anni il grosso aumento demografico riguarderà proprio le zone rurali, disagiate e instabili dell’Africa, cosa si pensa di fare? Gli shock climatici e i conflitti si risolvono (o si arginano) solo ripensando modelli di sviluppo che passano da accordi internazionali, e con una più equa distribuzione della ricchezza. Senza questa precondizione, nessuno potrà arrestare la fame, e quindi i flussi migratori. Mentre l’11% della popolazione mondiale è malnutrita, 600 milioni di persone sono obese, e 1,3 miliardi sovrappeso. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, ogni anno, un terzo di tutta la produzione alimentare viene buttata prima che arrivi al consumo. Vale a dire 1.3 miliardi di tonnellate di cibo per un valore globale di 1 trilione di dollari l’anno.

 

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Secondo la Ong Action contre la faim «già oggi abbiamo la capacità di nutrire 10miliardi di persone sulla terra. La fame non è un problema tecnico. È un problema politico».
(ha collaborato Carla Falzone)

 

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