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“Deforma” dei beni culturali: altri contributi (e un altro presidio)

PRESIDIO 1 FEBBRAIO 2016 MIBACT

Continuano  gli interventi  critici contro la riforma del Ministro Franceschini: pubblichiamo un articolo di Francesco Erbani su La Repubblica, di Vittorio Emiliani sul Corriere della Sera, con una riflessione di Tomaso Montanari, mentre i sindacati organizzano un nuovo presidio davanti al MIBACT per il 1 febbraio dalle 15.30

La battaglia per l’archeologia (e un ministro che sapeva cosa faceva)

di Tomaso Montanari
L’ultimo stadio del razzo del Governo Renzi contro l’articolo 9 della Costituzione ha avuto finalmente l’effetto di far insorgere il popolo del patrimonio culturale.

Sit in sotto il Collegio Romano a cui partecipano accademici dei Lincei, assemblee nei musei, appelli preoccupatissimi della comunità nazionale dell’archeologia, dure lettere dei dirigenti interni del Mibact e del comitato tecnico scientifico dello stesso Ministero, articoli di giornale ampi e ben informati: ora Dario Franceschini e la sua ‘deforma’ del governo del patrimonio è sul banco degli accusati.

Meglio tardi che mai, si dirà: dopo lo Sblocca Italia con suo assalto al territorio, l’asservimento dei musei autonomi al potere discrezionale del ministro, la Legge Madia col silenzio assenso e la letale sottomissione delle soprintendenze ai prefetti. Un vaso di veleni, stracolmo: e ora l’ultima goccia, la soppressione delle soprintendenze archeologiche con la relativa Direzione generale. Venuta di notte, come un ladro: con una normetta nascosta nella legge di stabilità (l’avevo svelata su Repubblica il 21 dicembre). E con questa goccia, il vaso trabocca.

Dell’inaffondabile, spregiudiciato democristiano Dario Franceschini tutto si può pensare tranne che non sia sveglio. E dunque non passerà molto tempo prima che si renda conto che questa volta ha tirato troppo la corda. Avrà il coraggio di dire: «Scusate, questa volta mi sono sbagliato», e di ritirare coerentemente il suo decreto? Sarebbe una bella pagina istituzionale. Potrebbe andare in televisione, magari da Fazio, e dire, per esempio:

«Una soprintendenza all’arte o all’antichità non costituisce un ufficio amministrativo qualsiasi, ma ha una giurisdizione di merito, in cui la valutazione personale, la preparazione culturale singola, la conoscenza tecnica specifica hanno la massima importanza. Tale importanza, una volta ammessa (né potrebbe essere altrimenti) delimita, per necessità, delle sfere di competenza di specializzazione, che esigono d’essere riconosciute in una corrispondente divisione amministrativa. Soprintendenti, direttori, ispettori sono funzionari ammirevoli (e mi piace ripetere loro pubblicamente questa lode): ma perché l’azione che svolgono sia effettivamente proficua, deve potere intensificarsi nel campo delle conoscenze specifiche, essendo la loro sfera d’azione vastissima e mai conclusa, neanche a scavo ultimato o a restauro compiuto.

Occorre, quindi, che l’archeologo faccia l’archeologo, l’architetto risarcisca l’architettura lo storico dell’arte si prodighi per statue, tavole, tele, affreschi. Non, badate, per stabilire in questo campo una drastica specializzazione, da cui, non concependo compartimenti stagni nello spirito, io aborro. Ma altra cosa è l’informazione culturale, altra l’azione, nella quale ognuno deve praticamente attuare quel che fa e sapere quel che fa. Possedere, insomma, un corredo di cognizioni tecniche le quali un uomo solo non può ormai abbracciare che per settori: altrimenti non è un tecnico, ma un dilettante».

Così rispose, nel 1939, il ministro a chi gli chiedeva perché avesse diviso le soprintendenze secondo competenze tecniche specifiche: cioè esattamente il contrario di quello che fa la ‘deforma’ Franceschini, che ci fa arretrare invece che avanzare.

Quel ministro era Giuseppe Bottai, il presidente del Consiglio era Benito Mussolini: dovere, alla fine, ammettere che per il patrimonio culturale hanno fatto meglio loro di Franceschini e Renzi sarebbe davvero imbarazzante.

Tomaso Montanari

Perché non siamo un paese per archeologi

di Francesco Erbani  La Repubblica 30 Gennaio 2016
 «Tesori immensi, molti laureati, troppi precari e una riforma contestata: viaggio in una crisi». La Repubblica, 30 gennaio 2016 Il malessere è diffuso da anni. Ma la nuova, ennesima riorganizzazione del ministero per i Beni culturali spinge una categoria che non vanta tradizioni barricadere, come gli archeologi, sul piede di guerra. In realtà è l’intero mondo incaricato di tutelare e valorizzare il patrimonio italiano a sentirsi frastornato dai ripetuti rivolgimenti. Non si fa in tempo, si sente dire, ad adattarsi a uno scombussolamento della macchina ministeriale (l’ultimo è dell’agosto 2014, seguito dalle nomine al vertice dei musei autonomi nell’agosto del 2015), ed eccone un altro, altrettanto radicale. Lettere, appelli, assemblee, sit-in: i lavoratori dei beni culturali sono in subbuglio.

La miccia esplosiva è la decisione del ministro Dario Franceschini di cancellare le 17 soprintendenze archeologiche, accorpandole con quelle che tutelano paesaggio e belle arti. In totale le soprintendenze in Italia saranno 39, più le due speciali di Roma (che perde pezzi pregiati: Appia Antica, Ostia e il Museo Nazionale Romano) e Pompei (alla quale viene tolta Ercolano). Un taglio di posti dirigenziali che consente di crearne altrettanti per guidare gli appena istituiti nuovi musei o siti archeologici autonomi. Le poltrone di soprintendente da poco assegnate ad architetti o a storici dell’arte saranno riassegnate perché ad esse potranno concorrere anche archeologi. Un carosello che, temono in molti, farà arrancare una macchina già in affanno.
È l’archeologia l’epicentro del terremoto. Un settore in cui l’Italia ha un primato e per tutelare il quale si formano ogni anno alcune migliaia di giovani. Dati precisi l’Associazione nazionale archeologi non ne ha. Ma da un censimento del 2011 e, assicurano, tuttora valido, risulta che in Italia ci sono, oltre l’università, 15 scuole di specializzazione più la Scuola archeologica di Atene alle quali accedono per selezione 600 giovani l’anno (il che fa dire a Salvo Barrano, presidente dell’Ana, «che i laureati ogni anno sono almeno il doppio »). Che faranno dopo il biennio di corso? Il 14 per cento degli archeologi è dipendente in parte del ministero, in parte di imprese o istituzioni private. Il resto alimenta l’impressionante bacino dei precari: il 27 per cento scava a partita Iva, il 7 in forma di impresa o di cooperativa, il 14 come collaborazione occasionale. Il 62 non lavora più di sei mesi l’anno e solo il 17 copre gli interi dodici mesi. Eppure il 52 per cento ha una brillante qualifica (master di primo e di secondo livello, dottorato, corsi all’estero…). La maggioranza smette superati i 40 anni.
Lunedì a Palazzo Massimo a Roma erano in trecento e assai battaglieri ad affollare un’assemblea indetta da Cgil, Cisl e Uil. Tutto il personale della soprintendenza archeologica di Roma è in stato d’agitazione. Una lettera di protesta al ministro è stata firmata da 16 su 17 soprintendenti archeologi. «Grave preoccupazione» esprimono decine di studiosi di tutto il mondo in questi giorni a Roma per un convegno al Reale Istituto d’Olanda. I quali temono che si dissolvano «modelli amministrativi e forme di cultura giuridica che hanno ispirato l’ordinamento delle antichità in molte parti del mondo».
Per lunedì prossimo è convocato un sit-in davanti al ministero (le proteste sono sempre di lunedì, a musei chiusi). Non c’entra con la riforma, ma una marcia sull’Appia Antica è stata organizzata per il 13 febbraio dall’Associazione Bianchi Bandinelli: è la prima iniziativa per i vent’anni dalla morte di Antonio Cederna. Ma ciò che la riforma prevede per l’Appia Antica non se ne starà sullo sfondo.
Sull’archeologia italiana si addensano fosche nubi. La quasi totalità degli scavi avviene non sulla base di un progetto culturale, bensì come effetto secondario dei lavori per un elettrodotto o per una linea ferroviaria. Si chiama archeologia preventiva. Ai lavori in zone dove si presume siano custoditi reperti assistono archeologi pagati dall’impresa, i quali intervengono se viene scoperto qualcosa. Funziona così così, a giudizio di molti (è qui che è impegnato l’esercito dei precari, pagato anche 5 o 6 euro l’ora). Ma intanto è un’occasione per alimentare conoscenze.
Secondo gli archeologi Pier Giovanni Guzzo e Maria Pia Guermandi nella nuova formulazione del Codice degli appalti non vi sarebbero norme sull’archeologia preventiva. Il che vorrebbe dire che si torna al sistema per cui se scavando rinviene una struttura antica, l’impresa – ammesso che sia onesta – sospende i lavori, segnala il fatto alla soprintendenza avviando una farraginosa procedura.
La soppressione delle soprintendenze archeologiche e le norme fissate dalla legge Madia (il parere di una soprintendenza deve arrivare entro 60 giorni, altrimenti è come se si dicesse sì; il prefetto potrà intervenire sulle decisioni di un soprintendente) piombano su un apparato pubblico di tutela già indebolito dai tagli. Nel 2008 il bilancio era di poco superiore ai 2 miliardi, nel 2011 si è precipitati a 1,4 e nel 2015 si è appena appena risaliti a 1,5. Per il 2016 Franceschini ha annunciato un incremento di 500 milioni: si tornerà a una condizione in cui per la cultura c’è pur sempre meno dello 0,30 per cento del bilancio statale (è oltre l’1 per cento la media Ue). Per archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari, archivisti vige il blocco del turn over che interessa il pubblico impiego e i 500 nuovi posti messi a concorso nel 2016 copriranno a malapena i pensionamenti (l’età media dei funzionari supera i 55 anni).
La tutela del patrimonio, si sente lamentare nelle assemblee, nei blog e sui siti, è ormai una chimera. Uno dei punti roventi è l’Appia Antica, che le nuove norme hanno sganciato dalla soprintendenza di Roma e trasformato in una struttura autonoma. La soprintendenza romana a sua volta è disintegrata: si occuperà del Colosseo, del Palatino e dell’area archeologica centrale, con una cassaforte di oltre 44 milioni d’incassi finora spalmati su gioielli meno remunerativi, come l’Appia Antica. Ma ora che succederà? Il futuro direttore dell’Appia Antica (3.500 ettari, un pezzo di città, nessun biglietto d’ingresso, quasi tutta in mano a privati, tranne la villa dei Quintili, la tomba di Cecilia Metella o il Circo di Massenzio) dovrà impegnarsi soprattutto nella valorizzazione. Che sarà separata dalla tutela e dalla guerra agli abusivi (1,3 milioni di metri cubi di nuove edificazioni). Le quali funzioni passano a una delle tre soprintendenze laziali, con il rischio che nei conflitti di competenza si perda un patrimonio di documentazione e di esperienze maturate nel fronteggiare gli assalti a un luogo così prezioso. Compreso l’accurato piano di gestione presentato appena un anno fa da Rita Paris, che dal 1996 dirige l’Appia Antica e le cui conoscenze sono imprescindibili per la tutela dell’area. (Francesco Erbani)

CORRIERE DELLA SERA 27 GENNAIO 2016 Archeologia, Soprintendenza smembrata per «cassa» Nasceranno nuovi Musei «autonomi» che dovranno mantenersi da soli. Ma il Colosseo è uno
di Vittorio Emiliani

Nasce il Parco Archeologico dell’Appia Antica, addirittura fino a Brindisi. Non siete contenti? No, perché esso non tutelerà questo splendido comprensorio – che al 95 % è dei privati e risulta incessantemente appetito da speculatori e abusivi – ma lo «valorizzerà». Per semplificare le cose, esso si sovrappone al Parco regionale dell’Appia, soprattutto «naturale». Con quali incroci non si sa. E la Soprintendenza Archeologica allora? Viene letteralmente smembrata. In tutta Italia le Soprintendenze vengono devitalizzate trasferendo personale, archivi, poteri ai Musei e ai Poli Museali. Sempre in nome della valorizzazione, cioè del «mettere a reddito» i beni culturali, del «fare soldi» ovunque si può, anche imponendo il biglietto d’ingresso al Pantheon.
Difatti dallo smembramento della Soprintendenza Archeologica Speciale – che univa Roma e Ostia Antica e che negli ultimi anni, col propellente finanziario del Colosseo funzionava in modo soddisfacente – nascono nuovi Musei autonomi che «dovranno mantenersi da soli». Non sarà una pia (o empia) illusione visto che di Colosseo ce n’è uno solo che incassa un terzo di tutti i musei statali con 27 custodi (teorici, in realtà sono 21)? Louvre e Metropolitan devono coprire il 50 % dei loro costi annui con fondi statali, federali, ecc. Lo sapevate? E pensare che fino a ieri col «vecchio» collaudato sistema delle Soprintendenze si sono realizzate mirabilie fra Roma e Ostia.

Il restauro strutturale del Colosseo (Banca di Roma) e quello più recente (Della Valle), il maestoso Palazzo Altemps con la Ludovisi, la Crypta Balbi, il Museo all’ex Collegio Massimo (il 4° piano con gli affreschi della Farnesina e delle Ville romane è da sindrome di Stendhal), la Domus Aurea, la Villa dei Quintili, Capo di Bove e Santa Maria Nova sull’Appia, la Piramide Cestia, le numerose Domus di Ostia e altro ancora. Ebbene questo sistema ora viene disarticolato. Senza una discussione preventiva approfondita, senza ascoltare sindacati né tecnici, senza passaggi parlamentari. Nulla.
La separazione nettissima fra tutela e valorizzazione sveltirà le procedure? Per esempio il prestito di un quadro da museo a mostra? Neanche per idea. Ci vorranno più pareri. E il restauro di un’opera sarà tutela o valorizzazione? Non si sa. Di più: da una parte si smembra e quindi si moltiplicano sedi, uffici,direttori tecnici, assistenti e si mettono a rischio archivi storici e fotografici ormai più che centenari, il patrimonio librario, ecc. Dall’altra ci si accorpa nella Soprintendenza unica con Belle Arti e Paesaggio. Per metabolizzare questo pastone o pasticcio le Soprintendenze impegneranno mesi ed energie. Quindi, meno tutela, una pioggia di silenzi/assensi, anche per progettacci scadenti. In attesa di passare sotto i Prefetti, come nel Piemonte sabaudo.
27 gennaio 2016

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