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Il patrimonio artistico perduto

sito-mibact-pagina-terremotoTre riflessioni sul terremoto e il nostro patrimonio artistico perduto. Di Vittorio Emiliani, di Tomaso Montanari –  che pubblica una lettera del professor Antonio Borri (Ordinario di Scienza delle Costruzioni nella Università  di Perugia) e  di  Manlio Lilli (da Eddyburg)

“Salvare le chiese di Norcia dopo il 24 agosto era possibile”

 di Vittorio Emiliani   05 Novembre 2016
«Competenze in soffitta e prevenzione zero. Lo storico dell’arte Bruno Toscano: “Bisognava puntellarle come ad Assisi nel 97”». Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2016 (p.d.)

C’è un forte scontento per il modo in cui il governo, e per esso il ministero dei Beni culturali, sta da mesi trattando (o non trattando) la scottante materia del dopo-sisma fra Lazio, Umbria e Marche. A settanta giorni dalla prima grave scossa del 24 agosto s’inizia soltanto ora a parlare di Soprintendenza speciale per le zone terremotate nella bozza del decreto bis sul sisma.“Le chiese di Norcia e di Campi si potevano salvare”, s’indigna Bruno Toscano, storico dell’arte, il più penetrante conoscitore di quei territori, protagonista del dopo-terremoto del ’97. “Dopo il 24 agosto bisognava puntellare quanto si poteva, subito. Come si fece per la Basilica di San Francesco ad Assisi subito dopo la scossa del 25 settembre 1997 senza aspettare quella del 4 ottobre che sarebbe stata devastante. Qui i forti terremoti si susseguono a cadenza quasi regolare: 1958, 1969, 1997, 2016. E invece niente prevenzione”.Era pure venuta qui, in missione, il segretario generale del ministero, Antonia Pasqua Recchia, architetto. Perché non ha deciso nulla di concreto? Perché non ha seguito l’esempio dell’ultimo, forse, grande segretario del ministero, Mario Serio, che nel ’97 si assunse col commissario straordinario Antonio Paolucci, assistito da strutturisti quali Giorgio Croci e Paolo Rocchi, la responsabilità totale delle grandi gru e della foresta di tubi d’acciaio montata fra Umbria e Marche, cominciando dal timpano della pericolante Basilica Superiore? Dove sono finiti i tecnici del ministero per i Beni culturali?Hanno lavorato come matti per visitare, con un gruppo di ingegneri strutturisti – lo racconta uno di questi, Antonio Borri – quasi tutte le chiese della Valnerina. Misure concrete? Zero via zero. Con la frustrazione di veder crollare ciò che era salvabile dopo il 24 agosto. “Ce ne sono ancora di tecnici nelle Soprintendenze?”, si domanda scettico un grande archeologo, Mario Torelli, per decenni docente a Perugia. “I più mi risultano imbucati nei Poli museali dove lavorano meno e con meno responsabilità: in tutta l’Umbria è rimasto un solo archeologo dove cinque anni fa ce n’erano otto”.

La Soprintendenza unica voluta a tutti i costi dal ministro Dario Franceschini fra proteste diffuse ha qui come segretaria una distinta archivista. Del resto del terremoto se ne occupa non il ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio, con Franceschini e con magari il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, ma Matteo Renzi in prima persona, con al fianco l’archistar Renzo Piano. Non lo vedrete mai con un soprintendente. Il premier detesta “la figura più mediocre e grigia della burocrazia”; “un potere assurdamente monocratico”, come ha scritto pochi anni fa.

Per questo il ministero dei Beni culturali è ormai un vecchio corpo, indebolito dalla fame e dai continui interventi chirurgici, otto riforme, ultima la riforma-killer Renzi-Franceschini: conta appena 539 architetti per tutta Italia, un pugno in Umbria e Marche, ancor meno archeologi (384) e storici dell’arte (397), con una percentuale altissima, la metà, oltre i 60 anni e una bassissima di trentenni, fra il 2 e il 7 per cento. Da piangere. Tutti accorpati o in via di accorpamento ora nelle Soprintendenze uniche e quindi impegnati a disfare uffici, a trovarne altri, a dividerseli coi musei scissi dalle Soprintendenze perché valorizzazione e promozione non vengano “contaminate”, guai mai, dalla tutela.

Ora il commissario straordinario Vasco Errani – che viene da una situazione emiliana dove la ricostruzione delle fabbriche è stata rapida, mentre non pochi ritardi emergono per i centri storici – ha deciso di affidare la tutela ai Comuni. Gesto disperato. Sono i Comuni, in testa il sindaco di Matelica (Macerata), a reclamare più Stato, più interventi ministeriali efficienti e competenti. “Purtroppo si è sprofondati ovunque nell’ignoranza e nell’incompetenza”, commenta lo storico dell’arte spoletino, Bruno Toscano.

“Con Michele Cordaro, allora direttore dell’Istituto centrale del restauro, facemmo realizzare vicino a Spoleto, a Santo Chiodo, un grande magazzino di 22 mila metri cubi, pagato dallo Stato, per il pronto intervento e il non meno pronto ricovero delle opere d’arte nelle chiese, nei conventi, nei palazzi terremotati. Sa cosa ci ha messo dentro la Regione Umbria? Le cartacce del proprio archivio”.

E ora molte opere d’arte sono ancora lì in mezzo alle rovine. Né si sono montati quei grandi tendoni impermeabili che, coprendo le macerie, le riparano dai furti e soprattutto dalle piogge, dalle intemperie, consentendo, loro sì, di recuperare colonne, capitelli, pezzi di tortiglioni e di sculture, cornici, fregi, e quant’altro servirà a una ricostruzione il più possibile filologica.

Una misura ormai di routine. E ora sono arrivate le piogge. Quel “ricostruiremo com’era e dov’era” rischia di essere, con questo personale politico e scientifico, soltanto una vaga promessa.

Si potevano salvare le chiese? Si poteva almeno provarci.

di Tomaso Montanari   03 Novembre 2016
L’ennesima testimonianza di una politica che, nell’illusione di “modernizzare” e privilegiando il “fare” (comunque sia) al “pensare”, sta distruggendo l’Italia. Ma non è solo colpa di Renzi:è almeno un quarto di secolo che si lavora in questa direzione. La Repubblica online, blog “articolo 9”, 3 novembre 2016 
Pubblico di seguito una lettera del professor Antonio Borri, Ordinario di Scienza delle Costruzioni nella Università degli Studi di Perugia e Presidente del Centro Studi Mastrodicasa.
«Caro Prof. Montanari,
ho letto i suoi articoli riguardanti la mancata tempestività del MiBACT ad intervenire con le messe in sicurezza delle chiese nell’Italia centrale, in particolare in Valnerina, e le scrivo per dare un contributo a questo tema.
Conosco, almeno in parte, la situazione, dato che in questi ultimi due mesi ho coordinato una squadra di ingegneri strutturisti che a partire dai primi di settembre ha fornito un supporto tecnico ai funzionari del MiBACT incaricati di effettuare i rilievi dei danni al patrimonio culturale colpito dal sisma.
Credo sia giusto riconoscere anzitutto l’abnegazione e la competenza di questi funzionari del Ministero e delle Soprintendenze che si sono resi disponibili a fare i sopralluoghi in condizioni di notevole rischio, spesso rimettendoci peraltro di tasca propria, sotto la formula – già questa fonte di molte perplessità – del “volontariato”.
Noi strutturisti universitari che li abbiamo accompagnati ci siamo presi, insieme al rischio fisico, anche la responsabilità di valutare l’agibilità o meno di queste costruzioni e di indicare le eventuali necessità di provvedimenti di pronto intervento. Il tutto, ovviamente, a titolo gratuito e volontaristico, come peraltro avevamo fatto nei sismi degli anni passati.
In questi ultimi due mesi abbiamo visto quasi tutte le chiese della Valnerina, e in molti casi erano necessari interventi rapidi, quanto meno per mettere in salvo i beni mobili.
Spesso, purtroppo, a queste indicazioni e a queste proposte di provvedimenti non è seguito alcunché.
L’ultima scossa di magnitudo 6.5 ha causato il crollo di moltissime di quelle chiese che avevamo esaminato, e, guardando indietro, non posso evitare di fare un amaro bilancio: tutto il lavoro svolto, con tutti i rischi connessi, non è servito assolutamente a nulla.
Posso dire che mai, nel futuro, ci presteremo ancora a supportare filiere così inefficienti e inadeguate.
Adesso è giusto domandarci: se fossero stati fatti subito interventi di prevenzione nei confronti di eventuali nuove scosse (peraltro previste dai sismologi) si potevano evitare questi crolli?
In molti casi la risposta è negativa; l’intensità dell’evento del 30 ottobre è stata elevatissima ed intervenire in emergenza su questi manufatti, specie quando sono così numerosi, è davvero problematico, se non impossibile. Al di là dei problemi burocratici per avviare le procedure amministrative per i progetti ed i lavori (come sappiamo, quando in Italia si vogliono fare i lavori di urgenza si fanno…) non sarebbe stato comunque possibile trovare tecnici ed imprese che in poco tempo potessero intervenire dappertutto.
È vero però – e qui mi riallaccio alla sua indignazione – che per molti casi si poteva realisticamente sperare in esiti migliori. Ad esempio, se fin dall’inizio fossero state individuate le chiese maggiormente significative e rilevanti, si poteva intervenire in modo adeguato almeno su queste.
Difficile dire come sarebbe andata, ma certo era assolutamente doveroso tentare.
E sarebbe bastato salvarne uno, anche solo uno, di questi capolavori storico-architettonici, per poter dire, adesso, che (almeno) qualcosa avevamo fatto. E invece: nulla, e quello che è avvenuto supera purtroppo di gran lunga, per quanto riguarda i crolli delle chiese, i danni sismici dell’Aquila.
Certamente colpisce la lentezza e la farraginosità del processo decisionale al Ministero, con rallentamenti, sovrapposizioni, rimbalzi e stasi che sono inaccettabili per situazioni come queste.
Non si capisce, francamente, come mai, dopo una serie continua di eventi drammatici e distruttivi (Umbria-Marche, L’Aquila, Emilia) il MiBACT ancora non abbia messo a punto, come invece ha fatto da tempo la Protezione Civile, una macchina operativa efficiente e snella.
Sino ad ora tutto sembra procedere invece, almeno dal punto di vista sistemico-burocratico (non come impegno, encomiabile, dei singoli) come se fossero nell’ordinario, ovvero “bradipo-like”.
Concludo facendole io una domanda: la ricostruzione di queste chiese ridotte a rovine, che peraltro costerà centinaia di milioni di euro, cosa ci restituirà di quel patrimonio che avevamo?
Temo di conoscere già la sua risposta….Un cordiale saluto”.

Terremoto, come il governo ha scelto di non salvare il patrimonio artistico

di Manlio Lilli   07 Novembre 2016

Insomma: perdiamo pezzi del nostro patrimonio o perché crollano, oppure perché sono guastati da mani incompetenti. Ciò perché si sono considerati gli uffici pubblici (a partire dalle soprintendenze) dei nemici da abbattere anziché degli strumenti da rendere più efficaci. Il Fatto Quotidiano online, 7 novembre 2016

“Non mi debbo difendere solo soltanto dal terremoto, ma anche dalla burocrazia, le pare possibile?”, diceva il 1 novembre Adolfo Marinangeli, sindaco di Amandola, uno dei piccoli comuni del maceratese sui quali il terremoto ha fatto quasi tabula rasa.“Le regole sono assurde. Per poter fare un puntellamento di uno stabile che ha un certo valore storico-artistico si deve trovare l’assenso di una serie di enti che non sempre sono in accordo l’uno con l’altro”, spiegava Marinangeli. La sua voce tutt’altro che isolata. “Il terremoto di domenica scorsa ha gravemente lesionato la nostra duecentesca chiesa di San Francesco e solo giovedì ho avuto l’autorizzazione a metterla in sicurezza. Ma lo sanno che con uno sciame sismico cinque giorni sono un’eternità?”, rincara la dose Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno. Sembra sia andata persino peggio a Caldarola, altro comune del maceratese dove gli interventi non ci sono stati proprio, almeno a sentire il sindaco Luca Giuseppetti.Così non si sa nulla del Castello Pallotta e del santuario di Santa Maria, non diversamente dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Borgo Piandebussi, del castello e dell’antiquarium di Pievefavera e della chiesa della Santa Croce a Croce. Ma il punto non è quel che non si è fatto, almeno nell’immediato a Amandola, Ascoli Piceno e Caldarola. Il disastro è generalizzato.Su questo il fronte degli amministratori locali è concorde. Servono troppi permessi. Per saperlo non è necessario essere un sindaco. Basta possedere un qualsiasi immobile vincolato e dover provvedere a un intervento di restauro. Insomma è innegabile che le procedure amministrative per giungere alla realizzazione dell’intervento sono difficili. Sia relativamente alle modalità che ai tempi.

Constato questo gap, tra la necessità di interventi rapidi e il dovere istituzionale di assicurare che siano garanti gli standard di scientificità richiesti dalle normative, quale potrebbe essere la soluzione? Quale la modalità per fare “presto e bene”? Non occorre scervellarsi. Inutile pensarci. Tutto sistemato. Ci ha pensato il Consiglio dei ministri del 4 novembre.

“Per la messa in sicurezza del patrimonio storico e artistico, i Comuni interessati hanno la facoltà di effettuare direttamente gli interventi indispensabili, dandone comunicazione al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”, la misura che risolve ogni cosa. Et voilà, verrebbe da dire. Quanto questa decisione risolva i problemi evidenziati dai sindaci dei centri spazzati via dal sisma del centro Italia, lo diranno i risultati che si raggiungeranno. Non soltanto in termini di rapidità, ma anche di qualità.

Quel che invece da subito appare inequivocabilmente evidente è che così si esautora sostanzialmente il ruolo delle Soprintendenze. Di più, si esaspera quella marginalizzazione già in atto da tempo dei tecnici che lavorano per gli uffici del Mibact. Insomma messi da parte restauratori, storici dell’arte, architetti e archeologi per far posto ai sindaci. Da ora, la salvezza di una chiesa oppure di una torre, di un castello o di un antiquarium dipenderà dalla loro capacità di darsi delle priorità, capacità di scelta, ad esempio, tra una ditta o l’altra. La sopravvivenza del patrimonio storico-artistico e archeologico dipenderà dal loro interventismo.

Un punto però deve essere chiaro. Il problema non sono i sindaci e neppure la loro difficoltà a provvedere, tanto più in situazioni di emergenza, a quel che necessita di cure. Il problema non è neppure quel che riusciranno a fare. Loro, i sindaci, sono davvero preoccupati. Così, questa misura che gli affida anche il patrimonio storico appare come l’unica soluzione possibile. Nella realtà non lo sarà, probabilmente. Anche se è una scelta che l’opinione pubblica, insomma quella degli non addetti ai lavori, osserverà con favore.

“Le Soprintendenze tra un parere e l’altro fanno passare mesi e intanto la distruzione prosegue. Finalmente ora ci sarà chi decide senza perdere tempo”, pensano in molti. E ognuno a citare un esempio. Per sentito dire, per esperienza diretta. Il vero problema è che a scegliere questa misura sia stato il Consiglio dei Ministri. Il guaio è che ad adottare questo provvedimento sia stato un Presidente del Consiglio e, considerate le competenze, il Ministro dei Beni culturali, con ogni probabilità ascoltato il parere del commissario per la ricostruzione. Hanno scelto di non scegliere. Facendo ricorso alla soluzione più demagogica e più irragionevole che ci fosse.

Una rapidità quella di Renzi e Franceschini sorprendente e peraltro utilizzata a intermittenza. Come non pensare ad esempio alla Soprintendenza unica speciale per il terremoto annunciata dal Ministro il 17 ottobre ma ancora in attesa di essere presentata? Ancora. Non sarebbe stato più utile rafforzare il ruolo delle professionalità all’interno delle Soprintendenze, facilitandone il lavoro, delineandone le strategie? In territori nei quali il sopraggiungere di eventi climatici sfavorevoli rischia di aggravare rapidamente le criticità provocate dal sisma, le esperienze delle professionalità delle Soprintendenza avrebbero potuto essere valorizzate. Finora si ha l’impressione che non sia accaduto. La crociata di Renzi e Franceschini contro la tutela tentata dalle Soprintendenze rischia di cancellare quel che resta.

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