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Colpa della politica o della burocrazia? (“Solo Draghi ci può salvare”)

di Giancarlo Storto*

Pubblichiamo una riflessione di Giancarlo Storto sul rapporto tra politica e competenza, e sulla selezione della classe dirigente chiamata ad amministrare la cosa pubblica.

Solo Draghi ci può salvare. Una locuzione che rimbalza da un editoriale all’altro, in cui si riconoscono commentatori sempre più numerosi di cultura (o incultura) politica decisamente disomogenea che sino a poco fa sembrava inverosimile potessero convergere su qualcosa o qualcuno (Ingrao, che avversò il Governo Ciampi, avrebbe parlato di “fiducia morale”).

L’adesione plebiscitaria a Draghi presidente del Consiglio rinvia ad una questione poco approfondita e nei fatti banalizzata: la (ri)scoperta della competenza come bene prezioso, mistico e insieme mitico, qualcosa di raro a cui oggi è necessario aggrapparsi come un naufrago che scorge qualcosa che galleggia in un mare in tempesta. Qualità, per unanime valutazione, lontanissima da essere esercitata da chi rappresenta la politica ai massimi livelli (e paradossalmente sono gli stessi politici ad invocarla).

Ma quale è il rapporto corretto tra politica e competenza? Sono due termini che devono sovrapporsi sempre e comunque? E che forma e contenuti deve avere tale sovrapposizione?

Mario Draghi non ha un percorso politico (almeno nei termini comunemente intesi) ma è certamente una persona competente e la sua storia professionale è nota a tutti:  questo vuol dire che il personale politico per essere legittimato deve possedere un curriculum specifico che ne giustifichi la presenza in un dicastero o in altri posti di responsabilità equivalente ed è del tutto trascurabile se abbia avuto esperienze di altra natura, più attinenti al “fare” politica?

Una volta i partiti selezionavano il proprio ceto dirigente che arrivava a posti di responsabilità avendo alle spalle un percorso conosciuto e testimoniato dalla bontà con cui aveva svolto i vari incarichi a responsabilità crescente. Spariti i partiti o fortemente ridimensionati nel ruolo e nella presenza nella società, le carriere politiche sono spesso improvvisate e finanche casuali così come l’ascesa alle posizioni di vertice. E allora, neghiamo la politica e ci affidiamo ai tecnici?

Sono convinto che un’altra dote, anch’essa posseduta da una stretta minoranza, va considerata: la capacità delle persone. La capacità di comprendere i processi, esercitare la mediazione e governare l’insorgere dei conflitti, di porsi in maniera empatica con la parte prevalente della società, possibilmente di non essere a digiuno nella gestione della cosa pubblica avendo maturato in precedenza una qualche esperienza. Soprattutto di avere idee e una visione non immiserita dalla “tirannia” del presente. Mi rendo conto che sono virtù, diversamente dal curriculum, difficilmente misurabili ma se così non fosse numerosi politici che hanno lasciato una traccia positiva del loro operato non avrebbero avuto modo di affermare la propria azione. Per tutti: Petroselli, senza alcun dubbio il miglior sindaco di Roma dal dopoguerra, era un funzionario di partito con una carriera tutta interna al Pci ed è a Rosy Bindi (laureata in legge) che si deve la più coraggiosa riforma in campo sanitario. Viceversa, molti dei cosiddetti esperti hanno dato prove disastrose. Qualche esempio? Elsa Fornero che ha dimenticato gli esodati distruggendo la vita di migliaia di famiglie; Franco Bassanini che non solo ha messo malamente mano alla Costituzione (la revisione dell’art. 116 ha reso possibile l’avvio del regionalismo differenziato, vera e propria sciagura ancora incombente) ma è stato l’artefice di una pessima riforma della P.A.; Luigi Berlinguer, autore di una contestatissima riforma della scuola. E si potrebbe andare avanti per molto nella esemplificazione sia per la prima che per la seconda catagoria.

Questo non vuol dire che le competenze non servono, tutt’altro. Spetta alla buona politica farsi affiancare da persone esperte e tra le qualità di un politico di livello spicca certamente la capacità di selezionare collaboratori detentori di saperi e conoscenze specialistiche in modo da essere adeguatamente supportato nelle scelte e nelle decisioni proprie della gestione politica-amministrativa (del tutto evidente, in negativo, la vicenda della sindaca Raggi).

E da qui il ragionamento scivola inevitabilmente sulla pubblica amministrazione che di tali saperi dovrebbe essere detentrice e espressione. Oggi è ridotta dalla politica ad una sorta di discarica umana, distrutta pressoché irreversibilmente nelle competenze tecniche e impoverita sino all’inverosimile di personale. Ma, soprattutto, senza che nessuno formuli una qualche idea di riforma per aggiornarne il ruolo e prospettare per essa un futuro credibile, dai contorni certi in relazione alla sfera di competenza delle autonomie regionali e agli spazi esponenzialmente crescenti assegnati all’iniziativa dei privati. Solo il ripetere da parte di tutti, dico di tutti con pochissime eccezioni (Fabrizio Barca, Vincenzo Visco), che occorre ridurne (Zingaretti) o, secondo alcuni, azzerarne (Salvini) il peso: Conte, presidente del Consiglio, è arrivato a chiedere l’alleanza dei cittadini per fronteggiare la burocrazia, una piovra dai mille tentacoli. Alla burocrazia sono imputati ogni possibile ostacolo allo sviluppo delle imprese e alla convivenza civile tale da rendere irragionevolmente complicata la quotidianità più minuta. Se questo è il comune sentire, c’è da chiedersi come mai da tale unanimismo di valutazione, diversamente per esempio dalla riforma della giustizia o della tassazione che vede i partiti su sponde contrapposte, non sia scaturita una revisione legislativa di portata commisurata al problema nei termini costantemente declinati: qualsiasi riforma strutturale non avrebbe trovato dissenso alcuno ma nulla è stato fatto di significativo nel corso di lunghi decenni (da ultimo Marianna Madia, mostrando capacità di incidere nel profondo, ha codificato la rotazione dei dirigenti per contrastare i fenomeni corruttivi, che vanno annientati anche revisionando il codice penale, ora troppo indulgente, riducendo però gli specialismi che pure ancora esistono e che per alcune posizioni non sono interscambiabili).

Mistero, fino a un certo punto.

Mi vado infatti convincendo che la burocrazia, nell’attuale configurazione, non sia sgradita ai politici. Almeno per due motivi. Il primo: con la riforma Bassanini la cosiddetta alta dirigenza è soggetta alla contrattualizzazione con scadenze al massimo di cinque anni ed il rinnovo rientra nella sfera decisionale del vertice politico che lo esercita in totale discrezionalità. Non solo, sempre a Bassanini si deve l’apertura al mondo esterno della possibilità di affidare incarichi dirigenziali a personale non di carriera: una tale innovazione, teoricamente condivisibile se ancorata a criteri di selezione inappuntabili e tali da rendere plausibile la cooptazione di persone esterne in quanto dotate di indubbia qualificazione, ha nella pratica portato all’interno delle amministrazioni, su volere dei vari ministri, funzionari con qualifica dirigenziale senza particolari competenze e senza alcuna conoscenza delle procedure in essere (nel ministero delle Infrastrutture l’alta dirigenza di carriera è una sparuta minoranza). In pratica, con il combinato disposto delle novità introdotte, si è ottenuto una struttura dirigenziale assai più manipolabile e asservibile alla politica, la cui estrema debolezza trova riscontro nella totale mancanza di capacità rivendicativa finanche di tipo corporativo.

La seconda motivazione, più legata alla comunicazione, è anch’essa conseguenza dei comportamenti politici. Se le leggi non vengono applicate o se le grandi opere ritardano ad essere realizzate, di chi è la responsabilità? Ovviamente della burocrazia e in questo modo la politica scarica su altri l’inefficacia della propria azione (resa evidente dalle lungaggini dei processi decisionali) e l’incapacità di dettare regole e norme chiare e di univoca interpretazione. Ha ragione Massimo Cacciari quando afferma che la politica è la maggiore produttrice di burocrazia e non ci vuole molto a sostenere questa tesi: basti pensare alla normativa fiscale o a quella sugli appalti o alle infinite revisioni del testo unico dell’edilizia o, da ultimo, alle complicatissime disposizioni sul superbonus. Norme che cambiano di continuo, zeppe di rinvii, modifiche, sostituzioni di commi: un vero ginepraio in cui si diletta un ristrettissimo numero di addetti ai lavori che peraltro incentrano la propria attività confrontandosi su interpretazioni capziose e sovente divergenti. Ma, sempre e comunque, la responsabilità è dei burocrati il cui assoluto obiettivo, secondo la vulgata corrente, è quello di intralciare le decisioni e congelare tutto il possibile.

Certamente molti funzionari non facilitano una sollecita conclusione delle procedure di cui hanno la responsabilità e questo porta discredito nella percezione che si ha della pubblica amministrazione, ma spesso (non sempre) il rallentamento è dovuto alla confusa normativa che devono applicare. Qualche esempio? Le norme tecniche del piano regolatore di Roma consta di 113 articoli (distribuiti in 90 pagine) più appendice e allegati e le norme del piano paesaggistico regionale del Lazio occupano 241 pagine con 66 articoli (più, nei due casi, una robusta cartografia). E non mi pare trascurabile che per il personale delle strutture pubbliche i corsi di aggiornamento, presenti in tante realtà lavorative, sono eventi del tutto sconosciuti e mai di fatto praticati.

Chiudo con una nota in controtendenza. Sinora la Regione Lazio, per le vaccinazioni avviate per contrastare la pandemia, ha messo in atto un’organizzazione efficientissima che rasenta la perfezione: zero minuti di attesa e pazienti che si muovono seguendo percorsi studiati nel dettaglio. Una prova che, se si ha volontà politica, si definiscono obiettivi condivisi da chi deve praticarli e si scelgono le persone giuste posizionandole in prestabilite filiere, la pubblica amministrazione può dare risposte più efficienti dei privati e a costi smisuratamente più contenuti.

G.S.

2 aprile 2021

Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com

*Giancarlo Storto, già direttore generale delle Aree urbane e dell’edilizia residenziale presso il Ministero dei Lavori pubblici, autore di La casa abbandonata Il racconto delle politiche abitative dal paino decennale ai programmi per le periferie  Officina Edizioni 2018  e curatore di Territorio senza governo Tra Stato e regioni: a cinquant’anni dall’istituzione delle regioni Ed. Deriveapprodi  gennaio 2021

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