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Decreto sugli standard urbanistici, cinquant’anni oggi. Un anniversario per riflettere.

citta urbanistica expo foto ambm IMG_4310Pubblichiamo un post di Giovanni Caudo, professore associato in urbanistica presso il DiAr, Università Roma Tre, assessore all’urbanistica di Roma Capitale con il Sindaco Marino, che ricorda che oggi 2 aprile 2018 è l’anniversario di un decreto che ha cambiato la storia del nostro vivere collettivo e che è al centro  di “Cinquant’anni di standard urbanistici 1968-2018″,  un’iniziativa di ricerca promossa da DAStU – Dipartimento di Architettura e Studi urbani, Politecnico di Milano; dCP – Dipartimento di Culture del Progetto, Università Iuav di Venezia; DiAr – Dipartimento di Architettura, Università degli Studi Roma Tre; DIA – Dipartimento di Ingegneria e Architettura, Università degli Studi di Trieste; e sostenuta da SIU – Società italiana degli urbanisti. Un sito dedicato e un calendario di incontri   per tornare a riflettere  sul ruolo che questo provvedimento ha avuto nella costruzione della città e dei territori italiani  e sull’urgenza di un ripensamento di strumenti, processi e azioni attraverso cui oggi si producono gli spazi “a standard”, servizi e dotazioni urbane a valenza pubblica e di interesse collettivo.

D.I n. 1444 del 2 aprile 1968 – Cinquant’anni oggi.

di Giovanni  Caudo

Molti di noi oggi, giorno di pasquetta, andranno per i parchi delle nostre città, ogni giorno i nostri figli frequentano scuole pubbliche, altri edifici ospitano le biblioteche, le palestre, i centri civici e i presidi sanitari come i poliambulatori, e anche le chiese, non solo quelle cattoliche ma di ogni culto e religione. Si tratta di una trama di suoli, edifici e spazi che costruisce la città pubblica, a Roma sono circa 5.000 ettari gli spazi per attrezzature pubbliche (verde, scuole, attrezzature di interesse comune e parcheggi). Pochi sanno che questi spazi sono prodotti in seguito a un decreto interministeriale, il numero 1444 del 2 aprile 1968, i cosiddetti standard urbanistici, che obbliga, da allora, i Comuni a prevedere spazi minimi per le attrezzature pubbliche nella misura di 18 metri quadri per ogni abitante. Così da allora ogni cittadino, senza distinzioni di genere, reddito o condizione sociale, ha diritto ad almeno 18 metri quadrati di spazio pubblico.

La storia di questa norma di civiltà risale all’azione dell’Unione Donne Italiane (l’UDI) che nel 1958 lanciò una campagna per “l’obbligatorietà dei servizi sociali”, l’emancipazione della donna passava per un quartiere amico della donna, dotato dei servizi che potevano ridurne il peso dei lavori domestici. Sei anni dopo, nel 1964, si tenne un importante convegno a Roma al quale prese parte anche l’urbanista Astengo. Si dovette poi aspettare il 1967, l’anno della prima legge organica sull’urbanistica emanata dall’italia Repubblicana, i disastri di Agrigento, gli alluvioni di Venezia e di Firenze, per vedere emanato il testo del decreto che fissò l’obbligo di attrezzare i quartieri e le città con una dotazione di aree per attrezzature.

Per chi ne vuole sapere di più, qui il blog del gruppo di ricerca che insieme ai colleghi del Politecnico di Milano, dello IUAV di Venezia, dell’Università di Trieste e come parte dell’attività della SIU (Società Italiana degli Urbanisti) abbiamo istituito ormai due anni fa per ricostruire le radici del decreto la sua applicazione e ragionare su come rinnovarlo mantenendo fermo il principio di civiltà che lo ha ispirato. Non è solo il ricordo di una ricorrenza, anche se per molti oggi gli standard sono visti come un problema, ma un impegno a presidiare una importante conquista di civiltà che la stagione di riforme sociali e civili degli anni Sessanta ci ha lasciato.

(>vai al sito Cinquant’anni di standard urbanistici)

(dal sito standardurbanistici)

Tre piani di indagine

Note per un programma di ricerca

Nel 2018 ricorre il cinquantesimo anniversario del Decreto sugli standard urbanistici (D.I. 1444/1968). Si tratta di un’occasione importante per tornare a riflettere da un lato sul ruolo che questo provvedimento ha avuto nella costruzione della città e dei territori italiani e nella configurazione dei saperi che se ne occupano, dall’altro sull’urgenza di un ripensamento di strumenti, processi e azioni attraverso cui oggi si producono gli spazi “a standard”, servizi e dotazioni urbane a valenza pubblica e di interesse collettivo.

Proponiamo di strutturare la riflessione sugli standard urbanistici intorno a tre piani di indagine che ci consentiranno alcuni affondi tematici intorno a temi specifici e complementari: radici, atlanti, prospettive.

– Il primo (radici) ha a che fare con l’elaborazione del decreto nel corso degli anni sessanta, che ci pare interessante rileggere come momento centrale nella riflessione sul welfare urbano e sul disegno della città da parte della cultura urbanistica italiana del secondo dopoguerra, indagando pratiche e discorsi che entrano nella sua elaborazione e che ne determinano enunciati e ruoli. Radici culturali, modelli di riferimento e collaborazioni interdisciplinari restituiscono un ampio background di manuali (espliciti e impliciti), esperienze progettuali e di pianificazione, domande emergenti da parte di una società civile in profonda mutazione alla ricerca delle dimensioni fisiche del benessere collettivo e nella democratizzazione della società e dello spazio urbano (Caudo 2015 b; Renzoni 2012; Renzoni 2014). Tra gli esiti di questo primo piano di lavoro segnaliamo l’identificazione di alcune periodizzazioni che possono fornire una cornice diacronica di riferimento comune per individuare nodi critici, pratiche specifiche e tratti di discontinuità rispetto alla concettualizzazione e alla interpretazione concreta del decreto e delle relative disposizioni di legge.

– Il secondo (bilanci/atlanti) riguarda la necessità di comporre un quadro aggiornato per rendere conto del ruolo che la norma sugli standard urbanistici ha avuto concretamente nella costruzione e trasformazione delle città e dei territori italiani in differenti stagioni. Può così maturare uno sguardo comparativo che, a partire dalla osservazione e dallo studio di alcuni casi paradigmatici (Bricocoli, Savoldi 2010), si muoverà a differenti scale e in differenti contesti e permetterà di approfondire e ridiscutere, secondo il nostro tema di indagine, alcune coppie oppositive consolidate nella discussione sulla città contemporanea in merito al ruolo di servizi e attrezzature, alla loro produzione e trasformazione (pubblico/privato; nord/sud; centro/periferia; aree metropolitane/ambiti della dispersione insediativa; suoli/servizi). Tra gli esiti possibili di questo secondo piano di lavoro segnaliamo la costruzione di atlanti selettivi a partire dalla comparazione di casi in contesti insediativi differenti, su base regionale e internazionale.

– Il terzo piano di indagine (prospettive) contempla un’interpretazione critica del presente e l’esplorazione di alcune ipotesi in chiave riformista rispetto al prossimo futuro. Prefiguriamo infatti, auspicandone l’avvio, una quarta stagione che abbiamo al momento nominato con l’immagine di una transizione, da standard a welfare, che apra il sentiero della ricerca sperimentale verso due direzioni: rafforzare e rendere più diffusamente possibile nella città contemporanea occidentale nuove dimensioni concrete del benessere individuale e collettivo, favorire e rendere concreta la prospettiva della trasformazione fisica della città esistente costruendo nuove forme di patrimonializzazione pubblica. Sia nel caso del benessere che in quello della patrimonializzazione si dovrà prestare attenzione a quali possano essere i dispositivi – non solo quantitativi, non solo top-down e non solo bottom-up, non solo dati nel e dal pubblico – attraverso cui garantire i diritti di cittadinanza e la costruzione della città pubblica del XXI secolo.

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