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Lo stereotipo della città tranquilla

cane citta foto ambmdi Fabrizio Bottini   

Il mondo della cosiddetta cultura nazionalpopolare e dell’intrattenimento sa benissimo di essere immerso fino al collo dentro criteri di mercato anche piuttosto perversi (…)

Il mondo della cosiddetta cultura nazionalpopolare e dell’intrattenimento sa benissimo di essere immerso fino al collo dentro criteri di mercato anche piuttosto perversi, dove impera assoluto (o quasi, vabè) lo slogan business is business, e qualunque produzione ha come obiettivo quello di vendersi a un pubblico più vasto possibile. Il che dovrebbe far riflettere, soprattutto quando pensiamo che la medesima valutazione, consapevolmente o meno, permea di sé ogni forma (o quasi) di giornalismo informativo, dal più pettegolaio e dichiaratamente vicino alla pura fiction al più serioso e «politico di inchiesta» che però non rinuncia mai all’immagine caratterizzante. Perché esistono immagini ricorrenti, stereotipate, accostamenti automatici di situazioni e sensazioni, «senso del luogo», del tutto campati per aria? E perché li si usa con tanta noncuranza o leggerezza, come se non se ne conoscesse l’enorme potere di condizionamento quasi subliminale dell’opinione pubblica? Forse davvero, si scherza col fuoco senza neppure sospettare di accenderlo e alimentarlo. E le città sono il caminetto ideale per questi esperimenti incendiari da apprendisti stregoni a propria insaputa.

Lo slogan immobiliarista come convenzione sociale

Milano, 10 feb. 2018 – Foto F. Bottini

Quante volte siamo inciampati nella cronaca dei più efferati delitti «ambientati dentro» l’implicita innocenza o colpevolezza di uno spazio urbano? Così tante non solo da aver perso il conto, ma anche da essersi abituati a considerarlo normale, parte del rito, persino credibile tanto quanto le forme dell’impaginazione o la posizione e scelta delle eventuali foto di contorno: la «insospettabile stradina di linde villette» dove mai e poi mai ci si sarebbe aspettati il «sottoscala dell’orrore»; la cittadina tranquilla e sonnacchiosa che «si risveglia» nel panico delle latenti contraddizioni; e naturalmente gli «allucinati falansteri metropolitani» dove tutto il male del mondo sta già concentrato, e pronto a fare il suo mestiere. Del resto questa incredibile geometrica potenza degli stereotipi urbani è il motivo per cui con tanta facilità e spontaneità anche brillanti teorie come quella del decentramento pianificato nelle città giardino di Ebenezer Howard, si sono rapidamente involute nel proprio opposto, alimentando l’eterna illusione suburbana, o le estremamente moderne osservazioni di Jane Jacobs sono sfociate nei peana sul quartiere tradizionale da cartolina, del tipo poi riprodotto in serie dai gentrificatori di tutto il mondo. Eppure, molti osservatori per nulla casuali ci hanno provato, a leggere i segnali della città per quello che sono o potrebbero essere. Solo per fare un esempio basta citare la Teoria della Finestra Rotta, che parte da sistematiche osservazioni concentrate soprattutto negli anni ’70 della crisi metropolitana più nera, della fuga dei ceti medi verso il suburbio, del crollo di solvibilità fiscale da insicurezza reale e percepita.

Dall’affermare chiaramente all’essere davvero ascoltati, cosa c’è di mezzo?

Ma puntuale come un cronometro, anche un lavoro teorico a suo modo ineccepibile come la Broken Window Theory nella formulazione originaria, affondava negli stereotipi, e il luogo comune invece di cogliere il potenziale di questo collegamento tra sicurezza percepita e uso mirato delle risorse scarse di ordine pubblico a scopi urbani preventivi (perché di questo originariamente si trattava), trasformava tutto in «politiche ferro e fuoco». Con che obiettivo, di fatto? Beh, ce l’abbiamo davanti agli occhi, volendo guardare a posteriori: la gentrification degli ex quartieri degli stereotipi negativi, e lo spostamento dei problemi nello «insospettabile scantinato dell’orrore» sotto la linda villetta che altre, nuove ricerche ci spiegano non essere poi tanto linda. E guardando la questione da un’altra, non troppo diversa prospettiva, pare che i medesimi stereotipi – nazionalpopolari ma non troppo – in agguato pervadano anche certe stravaganti idee di recupero delle periferie a colpi di prevalenti interventi edilizio-urbanistici, quando in realtà l’eventuale degrado delle strutture fisiche è solo conseguenza, e non componente base, del vero problema. Ma è dura discutere con chi una volta impugnato con forza uno slogan non intende certo lasciarlo andare, specie se ne ha fatto strumento di identità e legittimazione. E così, nonostante l’evidenza, dovremo continuare ancora per decenni, magari per sempre, a sorbirci una «informazione» come quella su Macerata, capoluogo provinciale sonnacchioso dove non succede mai niente perché in un posto così e così niente deve mai succedere, finché all’improvviso … Beh: chi vuole si legga al link cosa ne pensano gli studiosi della Brookings Institution, dei rapporti tra politica e «stereotipi spaziali».

Riferimenti:
Jenny Schuetz, Does TV bear some responsibility for hard feelings between urban America and small town America? Brookings Institution, 12 febbraio 2018
E magari per chi non li ha visti, gli articoli de La Città Conquistatrice dedicati alla Sicurezza Urbana

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