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Regolamento patrimonio indisponibile: Principio di concorrenza tra mito e realtà

Principio di concorrenza tra mito e realtà

 a cura di CILD (Centro Italiano per la Legalità Democratica)

È ormai di uso comune ritenere che qualsivoglia atto con la pubblica amministrazione debba rientrare nell’ambito di applicazione del codice degli appalti pubblici, norma di derivazione comunitaria, e quindi prevedere, salvo i casi in cui è possibile sempre ai sensi della detta normativa l’affidamento diretto,  l’obbligatorietà di procedure di evidenza pubblica al fine di garantire il principio di concorrenza santificato dalla normativa comunitaria, anche se ciò potrebbe essere contrario o comunque non conforme all’interesse pubblico a cui il detto atto amministrativo è diretto.

Superare tale convinzione, che ha il pregio di deresponsabilizzare sia gli organi politici che amministrativi, non è agevole in quanto non fondata su una specifica norma o complesso di norme specificatamente indicate ma esclusivamente sul comune ritenere che esse esistano.

È necessario, quindi, procedere ad una ricostruzione del quadro normativo, comunitario e nazionale da cui tale convinzione sembra aver preso le mosse.

Come è noto le competenze della comunità europea non sono di carattere generale ma derivano espressamente dai trattati che tale competenza le attribuiscono (art. 2 TUEF) e sono di tipo esclusivo, cioè solo l’Unione può legiferare ed adottare atti giuridicamente vincolanti, o concorrente, cioè sia l’Unione che gli Stati membri possono legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore ma gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria.

L’art. 3 del TUEF indica come competenza esclusiva dell’Unione i seguenti settori:

  1. a) unione doganale;
  2. b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno;
  3. c) politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro;
  4. d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca;
  5. e) politica commerciale comune.

L’Unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata.

L’Articolo 4 indica invece le materia di competenza concorrente con quella degli Stati membri nei principali seguenti settori:

  1. a) mercato interno;
  2. b) politica sociale, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel medesimo trattato;
  3. c) coesione economica, sociale e territoriale;
  4. d) agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare;
  5. e) ambiente;
  6. f) protezione dei consumatori;
  7. g) trasporti;
  8. h) reti transeuropee;
  9. i) energia;
  10. j) spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
  11. k) problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel trattato

Nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio l’ Unione ha competenza per condurre azioni, in particolare la definizione e l’attuazione di programmi, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la loro competenza, e nei settori della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario ha la competenza per condurre azioni e una politica comune, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la loro.

Il protocollo 26 allegato al TFUE prevede, poi, espressamente all’art. 2 che “le disposizioni dei trattati lasciano impregiudicata la competenza degli Stati membri a fornire, a commissionare e ad organizzare servizi di interesse generale non economico”

La libertà di organizzare la prestazione di servizi sociali obbligatori o di altri servizi di interesse economico generale o di in servizi non economici di interesse generale ovvero combinazione di tali servizi è poi ribadita al considerato 6 della direttiva 24/2014/UE.

La medesima direttiva 24/2014/UE, da cui trae origine il codice degli appalti, all’art. 76 stabilisce che gli Stati membri introducono norme a livello nazionale per l’aggiudicazione degli appalti di servizi sociali al fine di garantire il pieno rispetto dei principi di trasparenza e di parità di trattamento e che gli stessi sono liberi di determinare le norme procedurali applicabili fintantoché tali norme consentono di tener conto delle specificità dei servizi in questione.

Nello stesso senso va la sentenza Casta – causa C-50/2014 del 28.01.2016 che pur occupandosi di trasporto sanitario fornisce dei principi di carattere generale: “Qualora uno stato membro consenta alle autorità pubbliche di ricorrere direttamente ad associazioni di volontariato (il concetto di volontariato per l’unione si riferisce a tutti i tipi di attività volontarie, siano esse formali, non-formali o informali, intraprese per libera volontà, scelta e motivazione individuali e senza interesse di lucro – nota Cons. Unione 14552 del 3.10.2011) per lo svolgimento di determinati compiti, un’autorità pubblica che intenda stipulare convenzioni con associazioni siffatte non è tenuta, ai sensi del diritto dell’Unione, a una previa comparazione delle proposte di varie associazioni.”

All’esclusione, nel caso di assegnazione di immobili facenti parte del patrimonio dell’ente locale per usi sociali, di obblighi comunitari (che peraltro, come visto, non esistono) è possibile pervenire delimitando in maniera più dettagliata l’ambito giuridico in cui deve necessariamente inserirsi la concessione di beni del patrimonio comunale ad una associazione di cittadini che svolgono attività di interesse generale.

L’ambito è sicuramente quello delineato dagli art. 2, 42 e 118 della Costituzione, ed in particolare la previsone di cui all’art. 118 rappresenta un vero e proprio obbligo per lo Stato, per le Regioni, le Città Metropolitane, le Province ed i Comuni, ossia di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati per lo svolgimento di attività di interesse generale.

Il termine “favoriscono”, contenuto nell’art. 118 cost, non può  che essere inteso come un dovere di favorire; la norma ha infatti una natura precettiva e si traduce in un vincolo/dovere costituzionale di favorire mediante azioni concrete dirette o indirette, fra cui rientra sicuramente la concessione di un bene facente parte del patrimonio pubblico a favore di cittadini singoli o associati che si sono già attivati per lo svolgimento di attività di interesse generale.

Il rango costituzionale di tale obbligo, come ha espressamente affermato la giurisprudenza della Corte dei Conti (sezione Lazio sent. 22.02.2007 n. 179) fa sì che “alla luce del principio di sussidiarietà il sostegno e l’incentivazione di attività sociali, culturali e ricreative, rientrano sicuramente fra le funzioni amministrative e le finalità istituzionale degli enti locali”.

Appare evidente, a questo punto, come “l’obbligo di favorire”  le associazioni e singoli che svolgono attività di interesse generale non è compatibile con il principio di concorrenza, a tutela del quale viene posta una procedura comparativa.

In base al richiamato principio costituzionale (che rappresenta anche un limite alla vincolatività della eventuale norma comunitaria – in tal senso Corte costituzionale sent. 73/2001), l’obbligo di favorire sussiste nei confronti di “tutte” le associazione e i singoli che svolgono attività di interesse generale, cosa anche questa incompatibile con il principio di concorrenza, potendosi al massimo ipotizzare la previsione, in mancanza di un numero sufficiente di immobili nel territorio di intervento, della possibilità di uso comune e, solo nei casi in cui nemmeno questo è possibile, la definizione di una griglia valutativa che permetta, sulla base delle attività di interesse generale e delle relazioni con il territorio di riferimento, l’attribuzione del bene.

In questo senso vanno i principi esposti nella sentenza 67/2014 del TAR Liguria per cui “le concessioni di beni non destinati allo sfruttamento economico rappresentano (..) una manifestazione del potere dominicale dell’ente proprietario che, pur essendo soggetta al rispetto dei canoni di pubblicità, imparzialità e buona amministrazione, precede logicamente la realizzazione delle aspettative dei soggetti terzi. Ne deriva che la pubblica amministrazione, pur non potendo individuare in modo arbitrario i soggetti cui affidare la disponibilità dei propri beni, non è tuttavia tenuta all’espletamento di un confronto comparativo fra i potenziali concessionari laddove, nell’esercizio delle proprie attribuzioni discrezionali, ritenga motivatamente che l’attività di particolari soggetti meriti di essere favorita in ragione dell’interesse che presenta per la collettività, soprattutto qualora le finalità del privato coincidano con gli obiettivi prefissati dall’amministrazione. Un’impostazione differente comporterebbe, quale logica conseguenza, che la pubblica amministrazione non possa disporre dei propri beni in coerenza con le scelte discrezionali (latu sensu politiche) operate a monte, dovendosi invece limitare a scegliere i beneficiari sulla base di criteri riferiti all’ordine cronologico di presentazione delle domande, ovvero alla maggiore convenienza economica: soluzione che si appalesa assurda soprattutto nell’amministrazione locale, dove i criteri che presiedono all’utilizzo del patrimonio pubblico e le finalità perseguite attraverso i relativi atti di disposizione costituiscono parte non irrilevante del programma di governo dell’Ente”.

In realtà quindi non dovrebbe nemmeno parlarsi di regolamento per la concessione di beni immobili di proprietà comunale per usi sociali ma di bensì di regolamento comunale per l’attuazione del principio di sussidiarietà previsto dall’art. 118 della costituzione.

La differenza non è solo linguistica ma comporta una inversione paradigmatica dell’atto “concessione” che non rappresenta più un beneficio concesso a qualcuno ma, al contrario, è l’atto con il quale l’amministrazione realizza un proprio fine istituzionale costituzionalmente dovuto e che non può quindi essere sottoposto all’obbligo di una procedura comparativa.

Ovviamente come tutti gli atti amministrativi dovranno essere rispettati i criteri di economicità,  efficacia,  imparzialità,  pubblicità e  trasparenza  previsti dalla legge 241/90 che però, anche in questo caso, non prevedono necessariamente l’obbligo di attivazione di procedure comparative.

 

Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com

3 marzo 2020

 

 

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