(testo liberamente tratto dall’intervento)
“Gli uffici, gli spazi per lavorare oggi non hanno più valore, per cui sembra che l’unica possibilità sia trasformarli in case.La conseguenza apparentemente indolore,ma tragica, è che tutte quelle superfici che non hanno valore perché non c’è lavoro, non c’è produzione, cioè tutte le superfici che non producono più ricchezza, diventino case. Ma se diciamo questo, è come se dicessimo che, sul piano sociale ed economico, in una città come Roma, le superfici che dovrebbero essere parti produttive della città e che dovrebbero sorreggere l’economia di questa città, non hanno più valore. E se tutta la città è destinata a diventare case, è come mettersi la corda al collo.
E questo non regge anche perché la domanda del mercato delle nuove residenze comincia ad avere qualche sofferenza perché manca la materia prima: se il reddito delle persone non è sostenuto da un’attività produttiva reale, è chiaro che non c’è questa domanda di nuove case.
C’è qualcosa a monte che andrebbe deciso: quale sviluppo economico per questa città? Quali sono le ipotesi di sviluppo della città, per cui noi facciamo scelte di trasformazione urbanistica, scelte urbanistiche, scelte di sviluppo?
Aver fatto una legge come il Piano casa senza a essersi posto questo problema è preoccupante.
In alcuni casi questa norma è servita come incentivo per smobilitare delle attività produttive o di servizio. Ci sono vari casi tra quelli che si stanno verificando a Roma, tra cui un cinema ospitato in una grande struttura: basta un aumentato dell’affitto, per incentivare la chiusura sala cinematografica, per trasformarla in residenze.A me pare che questa sia una riflessione che manca nel dibattito sul Piano casa.
L’operazione non è tutta sbagliata, ma pensare che l’unico valore per la città sia la casa, è gravida di conseguenze preoccupanti. Non è tutta sbagliata la legge, perché la ristrutturazione edilizia è un’esigenza reale.
Da questo punto di vista l’amministrazione non è contraria, noi siamo sul terreno della trasformazione dell’esistente, come amministrazione comunale possiamo dare un contributo, finita questa prima fase in cui abbiamo messo in cantiere e affrontato la questione della trasformazione delle aree pubbliche,il nostro prossimo passo è la rigenerazione diffusa, che ha come riferimento il condominio. Noi siamo collocati su questo terreno d’azione, però in questo caso le norme del piano casa del Lazio, anche se mirano a questo aspetto, sollevano preoccupazioni di altra natura.
Ne ho già parlato con l’assessore Civita, e nell’interlocuzione avviata con gli imprenditori. In questo Piano casa Polverini c’è stato un eccesso. Nell’intesa stato-regioni non c’era la nuova edificazione, non era contemplata. Dove non c’è nulla – nessun edificio – non era prevista questa possibilità
Nel Lazio c’è stata questa novità, di poterlo applicare sul potenziale edificatorio, nella logica che ad esempio dove è previsto un ufficio, o un albergo, che il costruttore non ha realizzato perché non aveva mercato, per fare ripartire l’edilizia si possa convertire in case, così l’impresa lavora. Il ragionamento non fa una piega, ma nasconde l’ impoverimento complessivo del tessuto produttivo della città
Oltretutto è stata inserita nel Piano casa Polverini, tuttora vigente, una ulteriore premialità di cubature che sfiora l’irragionevole. Infatti questa premialità data sulle aree libere consiste non in una premialità riferita alla capacità edificatoria del proponente, ma in una premialità che si estende alla cubatura già presente nel piano particolareggiato, a prescindere dall’area posseduta dal proponente …
Un esempio: se io ho un’area non edificata dove era previsto un albergo a Porta di Roma, e chiedo un cambio di destinazione d’uso, non ottengo solo la cubatura riferita all’albergo, ma mi porto a casa il 10 % della cubatura di tutta Porta di Roma, compreso Ikea, Le Roy Merlin etc, solo perché esistono… Questo è un elemento distorsivo del mercato, perchè l’ultimo che arriva beneficia di una premialità e quindi mette sul mercato alloggi che hanno un’incidenza del costo del terreno molto più bassa rispetto all’imprenditore a fianco che ha comprato il terreno edificabile a un prezzo di mercato, il cui il costo grava sul costo finale dell’alloggio in misura decisamente maggiore. E questa distorsione è stata segnalata anche dalle imprese.
Questa visione del Piano casa, di come la città vada cambiata, anche se il nocciolo è giusto – trasformare e lavorare sull’esistente, dal punto di vista del risparmio energetico etc – ha sviluppato su questa esigenza una forte dilatazione delle possibilità di trasformazione che ne ha fatto un elemento distorsivo del mercato che ha delle ripercussioni nella gestione delle proposte.
Oggi ci troviamo in difficoltà, perché ci sono delle conseguenze di quella che doveva essere un’attività di semplificazione edilizia che hanno invece impatti urbanistici che non possono essere contenuti solo nella dimensione edilizia. Perché un intervento assume molta consistenza, in certi casi si può passare da a una previsione di un albergo a interi quartieri, anche di 2000 abitanti. Sono pochi casi, ma esistono.
Da quando la nuova giunta si è insediata, dalla prima metà di luglio, è iniziata una interlocuzione con l’assessore Civita per la modifica della Legge 21 (Piano casa Polverini): abbiamo fatto una serie di incontri, abbiamo provato a capire i margini delle modifiche che la Regione si era data, abbiamo portato richieste, in parte accolte, mentre per altre si è convenuto che non potevano essere accolte. Noi volevamo comprendere se c’era possibilità di una volontà “retroattiva” della modifica, vista anche la farraginosità della legge, che non viene risolta dalle circolari, nonostante le decine di pagine esplicative.
Nell’interlocuzione pensavamo a una volontà di modifica in qualche modo “retroattiva”, ad esempio anziché scrivere “l’articolo 3 ter comma 3 è sostituito da quest’altro”, in alcuni casi si poteva anche scrivere “è meglio definito” o “correttamente interpretato con questa dizione…”, cioè con una scelta che dava un un valore di interpretazione della norma precedente, che quindi poteva modificare anche le proposte già avanzate. Ma nello svolgersi degli incontri si è compreso che non si andava in questa direzione.
Un’altra cosa che abbiamo cercato di capire è se, trattandosi di una nuova legge che modificava quella precedente, introducendo anche elementi di novità, si poteva prendere in considerazione l’ipotesi di riaprire i termini per i Comuni per individuare le aree di esclusione; questo ci avrebbe consentito, essendo noi una nuova amministrazione e una nuova giunta, di riconsiderare le esclusioni dell’amministrazione precedente e di focalizzare meglio alcuni tipi di intervento consentiti.
La preoccupazione di Civita era il rischio, nel riaprire i termini per tutti i Comuni del Lazio, che alcuni casi le modifiche avrebbero potuto essere estensive anzichè riduttive; ma ci si poteva ragionare, la riapertura poteva essere in qualche modo limitata . Anche qui si è scelto di muoversi sul binario della legge precedente.
Nel momento in cui noi abbiamo compreso il percorso che si stava facendo in Regione, abbiamo capito che non ci sarebbero state conseguenze della nuova legge sulle pratiche già presentate, e quindi che era superato il nostro giusto timore di concludere delle istruttorie di alcune pratiche su cui la nuova legge regionale poteva impattare, creando disparità di trattamento, e quindi abbiamo operato sulle 195 proposte presentate, cercando di affrontarle con una precisa logica.
Abbiamo messo in fila le proposte dividendo tutti i progetti di ristrutturazione, pratiche di piano casa che non comportano un accesso alle aree a standard e quindi una cessione all’amministrazione comunale di aree standard, che quindi possono essere rilasciate secondo una pratica “edilizia”, da quelle che invece lo comportano. Questo perché il Piano casa va in deroga alle norme urbanistiche, ma non intacca una prerogativa dell’Assemblea consiliare che è quello della titolarità delle aree a standard, sia quando le concede che quando le prende in carico. Per fare un esempio: se io ho una proposta di usufruire del Piano casa per trasformare uffici in abitativo con un incremento entro il 10%, nel passaggio non ho un aggravio degli standard, perché gli standard a uffici sono maggiori di quelli della residenza. Se sto in questo range del 10% non ho bisogno di ulteriori standard, la procedura edilizia prosegue negli uffici.
Se invece accedo alle premialità – facciamo l’esempio più estremo, quello citato del piano particolareggiato in cui accedo al 10% alla premialità di milioni di metri cubi – ho un aggravio di standard urbanistici, e li devo reperire, e nella proposta il contenuto è la cessione di quelle aree all’amministrazione comunale.
Ma bisogna ricordare che chi è preposto a ricevere queste aree dal punto di vista patrimoniale o urbanistico è l’assemblea consiliare: ad esempio se mi dai un giardino, il Comune lo deve prendere in carico e accettare quella previsione.
Tutta questa parte riguarda quindi quelle pratiche di Piano casa che sono in deroga alle norme urbanistiche, ma non alla titolarità della competenza del soggetto – in questo caso l’assemblea consiliare – che è titolare a ricevere le aree pubbliche, oppure che dà il permesso. In alcuni quartieri gli standard sono in eccesso rispetto al minimo di legge, e quindi il privato chiede di fare cubatura in più perché ci sono già le aree a standard. Questo ragionamento, anche se da un punto di vista algebrico non fa una piega, al punto di vista sostanziale tira in ballo comunque l’assemblea consiliare, perché solo l’assemblea consiliare può dare l’approvazione per usare gli standard ai fini del conteggio.
Più complicata la fattispecie quando si tratta di accordi di programma, perché alcune delle proposte del Piano casa ricadono negli accordi di programma.
L’accordo di programma è sostanzialmente un patto basato su un interesse pubblico tra Comune e Regione e un proponente privato: l’elemento pattizio si configura in un bene pubblico che viene individuato.
In questo caso non si potrebbe neanche parlare esattamente di standard: se per fare un intervento ad esempio si è convenuto che l’interesse pubblico siano 20 ettari di territorio, quelli non costituiscono lo standard, sono l’equivalente della “contropartita” pubblica a fronte di una trasformazione che viene riconosciuta a un privato.
Nel momento in cui un privato, lo stesso o un altro, in quello stesso comparto, chiede che quelle aree che sono state a suo tempo riconosciute come l’elemento di interesse pubblico, vengano utilizzate ai fini del calcolo degli standard, perché ad esempio l’albergo che non ha costruito lo vuole trasformare in case, non si tratta più di un problema di conteggio. Il fatto è che quel patto, quell’accordo di programma siglato 5 o 7anni prima, aveva individuato quegli ettari come bene pubblico, e che invece quel bene dovrebbe viene destinato a un’altra utilità privata che non era non prevista.
Quello che abbiamo cercato di mettere in evidenza, è che quando una procedura nasce come una procedura edilizia, nel momento in cui soverchia la dimensione edilizia, non fa neanche un favore alle imprese, ma rischia di diventare un percorso accidentato, più lungo…
Di queste 195 proposte, in questa situazione possiamo dire di “sconfinamento” in dimensione urbanistica ce ne sono 56, di cui 10 hanno finito l’istruttoria, a 10 manca l’identificazione e la verifica delle aree a standard, due di queste sono state già rigettate, due sono state ritirate dallo stesso proponente, una è in corso di variazione (e questo è un aspetto interessante: alcuni dei proponenti, anche perché la legge regionale toglierà la premialità del 10% su tutto, hanno riconvertito la proposta, cioè si sono “auto allineati”, riconfigurando le proposte per avere un percorso più veloce), 5 proposte sono ancora in Regione, su 7 gli uffici hanno chiesto un’integrazione.
Di queste proposte che man mano andranno in Consiglio, faremo una delibera unica: con le diverse pratiche, su ognuna verrà fatta un’istruttoria, che propone di accogliere la proposta che prevede la cessione di queste aree a standard o l’uso delle aree a standard esistenti. L’assemblea delibererà se accogliere o no. Faremo una delibera unica con le 10 che hanno già finito il percorso e alcune altre che sono in via di definizione, le prime dovrebbero essere 15 o 18, l’assemblea approverà dando parere sui singoli progetti in modo che il funzionario possa dare automaticamente il permesso a costruire. Se l’Assemblea dice sì si dà il Pdc.
Le altre due fattispecie di proposte del Piano casa, che non hanno la premialità su tutto, ma che rientrano nello schema di tipo “edilizio”, sono 78 istanze ai sensi dell’ 3 ter comma 1, di queste 18 sono già state rilasciate (dati 8 gennaio 2014) , per 39 mancano parere o autorizzazioni di varia natura per esempio, paesaggistica, 4 sono in conferenza dei servizi, 3 le abbiamo rigettate, 2 sono sospese, 12 sono in fase di completamento dell’istruttoria.
Poi ci sono le pratiche ai sensi dell’ Art 4: 61 pratiche, per 10 sono già stati rilasciati i Pdc, 6 rigettate, 4 sono in conferenza dei servizi, 4 sono in attesa di pareri speciali (una di un parere idraulico, un’altra quello per aree boscate), per 6 è stata chiesta un’integrazione al proponente e 29 sono in istruttoria.
Il nostro obiettivo – quello degli uffici, perché in questo caso il potere di indirizzo dell’assessore non esiste, dato che si tratta dell’applicazione di una legge, e l’unico potere “di indirizzo” è la proceduralizzazione per non ledere alcuni diritti come quelli dell’assemblea consiliare – è portare a termine nelle prossime settimane quelle pratiche che hanno tutti i requisiti delle norme di legge.
(…) Conclusioni
Una delle cose più importanti che la città deve riacquistare è la capacità di discutere, la trasparenza, mettendo sul tavolo i dati, i numeri, le situazioni reali.
Ci sono stati in questi anni due estremi , in qualche modo uno lo specchio dell’altro: l’estremo di chi ha pensato che questa città poteva essere un luogo in cui l’impresa più era libera meglio faceva, e come reazione la giusta proliferazione dei comitati e di persone che hanno cominciato a impegnarsi per il bene comune, perché hanno visto che le cose andavano lontano rispetto ai loro bisogni e alle loro esigenze.
Io penso che noi veniamo da una doppia sconfitta, in cui l’impresa ha compreso fino in fondo che questa libertà assoluta si può ritorcere contro la stessa impresa e invece avere un’amministrazione pignola, testarda ma disponibile, nel merito, nel guardare le cose e nel tutelare l’interesse pubblico è una ricchezza. Ma nello stesso tempo dobbiamo far comprendere alla città che c’è un’amministrazione che si mette nei panni degli interessati, riconquistarci la fiducia so che è difficile, ma dobbiamo farlo, dobbiamo riavvicinare questi due estremi , che sono la conseguenza di una cattiva interpretazione di quello che era l’ uso che la trasformazione urbana ed edilizia può avere nell’ambito dello sviluppo economico di una città.
Quando una città comincia a perdere di riferimento i bisogni reali dei cittadini dei suoi abitanti, è l’inizio di una divaricazione che è letale per una città.
"Dal Piano casa Polverini al Piano casa Zingaretti: il caso Lazio" Casa dell'Architettura, Roma 15 gennaio 2014 Durata: 35' circa
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